La vacanza in montagna era il tempo della libertà. Potevo girare per il paese senza gli “attento qua”, “attento là”, “non dar retta agli estranei” (timido e riservato com’ero, a volte non davo retta neanche ai conoscenti), e insomma mi ritrovavo con le spalle sgravate di tutte le apprensioni di cui gli adulti mi facevano gentile dono. E il tempo della libertà era anche il tempo degli amici. Nella casa dei signori Rech, dove andavamo in affitto, abitavano tre fratelli figli, forse, del sindaco di Folgaria. Avevano un bellissimo cognome che, pochi anni dopo, avrei scoperto appartenere a un immenso musicista che aveva annusato, sognato, accarezzato le quattro stagioni mettendole sul pentagramma. Dal più grande al più piccolo: Mario, il capo; Franco, il suo vice; Paolo, il piccolino; e io che ero ancora più piccolo, però di poco.A nascondino, Mario vinceva sempre ma nessuno protestava, era logico che vincesse il più alto, forte e veloce, insomma il capobranco. Era lui a scegliere il gioco e a fare la conta, che in quell’angolo del Trentino era: «Sotto la cappa del camino c’era un vecchio contadino che suonava la chitarra bim bum sbarra». Nel cortile di casa Rech, il nascondiglio più ovvio erano le macchine parcheggiate: la 1100 del mio papà, una 500, l’Anglia del nonno che nel frattempo aveva dato l’ultimo bacio alla 600 ansimante, a volte perfino un’audace Dauphine.
Bastava rannicchiarsi dietro una ruota e schizzare fuori di corsa con tempismo. Beccavo subito Paolo, perché con le mani giochicchiava con il ghiaino: era lui. Il problema era Mario: se restava ultimo e prendeva mezzo metro di vantaggio, faceva liberi tutti. Nascondino rivelava il temperamento dei ragazzini: il temerario abbandonava impavido la tana, il prudente azzardava rare incursioni tornando subito indietro; il paziente si acquattava nell’angolo più remoto e attendeva, immobile, fino a quando restava per ultimo e gli altri lo pregavano di uscire. Bellissimo.Non passava giorno senza un sanguinoso combattimento. Era Mario a decidere la tattica per stanare quei maledetti Apache. Avevamo le Colt, in rari casi caricate con le superbum, infilate nei pantaloni. Chi sparava dichiarava “bang, colpito!” e nessuno osava obiettare nulla: un Apache di meno, sulla parola. Bambini coraggiosi, impavidi, senza paura di niente. Neanche di affrontare la spaventosa discesa sassosa che conduceva al garage dove il signor Rech teneva il suo camion rosso con il muso fatto a nasone. La bici era la mia, una Torpado a scatto fisso, regalo del nonno. Era un palese suicidio buttarsi di sotto sui sassi con una piccola bici a scatto fisso ma noi ci lanciavamo, sapendo di morire, per dimostrare il nostro coraggio, franando al suolo e lasciando sui sassi brandelli di pelle. Le estati vintage erano fatte di favolose croste sulle ginocchia. Poi, un’estate, nella casa del signor Rech non trovai più i tre fratelli Vivaldi. Si erano trasferiti a Rovereto, ci dissero. Un vuoto incolmabile. Finché una sera di qualche estate successiva Mario passò a salutarci. Era salito a Folgaria in motorino. Provai a mostrargli orgoglioso i soldatini Airfix su cui tanto avevamo fantasticato, ma lui gli diede appena uno sguardo distratto. Era davvero grande, Mario. Troppo, ormai.
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