Quella «Babele social» che è solo colpa nostra
venerdì 17 luglio 2020
Addio, eri un grande. Quattro parole. Non una di più. Nessun commento. Nessuna spiegazione. Qualcuno lascia una faccina con la lacrima o un cuore. Nessuno ha il coraggio di chiedere: a chi è dedicato il post? Chi è morto?
A pochi millimetri di distanza, sullo schermo, appare la foto di un tramonto accompagnata dall'hashtag #bellezza. Nessun altro indizio. Qui piovono copiosi cuori e pollici all'insù. Qualcuno azzarda: Puglia? Ma in cambio non ottiene alcuna risposta. Come se avesse chiesto qualcosa di disdicevole.
Un altro scroll dello schermo social e appare un post inferocito. «C'è chi non ci chiederà MAI scusa e MAI cambierà, perché ha talmente deformato i ricordi e la realtà, da convincersi di essere la VITTIMA!». Nessun altro indizio. Eppure cinque commenti approvano sulla fiducia.
Meno fortunato è un post di 2.364 caratteri di una collega sul disservizio di un ufficio della pubblica amministrazione. Tempo di lettura: 2 minuti e 12 secondi. A metà lasci. Perché il brutto dei disservizi è che ti appaiono giganteschi e intollerabili quando ti toccano in prima persona, ma decisamente non sono altrettanto scandalosi quando capitano agli altri.
«Ormai reggo meglio l'alcol delle persone. È grave?», si chiede poco più in là un amico digitale. Nel giro di pochi minuti, a dare retta ai commenti che riceve, potrebbe essere pronto per fondare un movimento. Paolo intanto informa gli amici che ha appena corso 7 chilometri in 50 minuti e 20 secondi, ottenendo così 7 mi piace. Laura posta foto delle Dolomiti, Annalisa del crocifisso di San Domenico di Cimabue. Ma un video delle Maldive del Salento di Rudy ottiene più like di tutti.
Sono passati appena pochi minuti e ciò che resta della mia visita sui social è un frullato di parole e immagini. Niente di così diverso dal solito. In fondo, per alcuni i social sono come dei grandi bar dove ognuno dice la sua, sperando di essere ascoltato. Tutto vero. Ma da qualche tempo mi sembra che ognuno vada per la sua strada e suoni la sua musica senza fare nessuno sforzo per ascoltare gli altri. Come se non fossimo in cerca di un contatto o di una comunicazione, ma solo di una finestra da aprire, attraverso la quale gridare i nostri pensieri, senza preoccuparci se chi ascolta capirà o meno il nostro messaggio. Come se il dialogo e l'incontro con l'altro avessero sempre meno valore. Come se l'unica cosa importante fosse liberarci di un peso che abbiamo dentro.
Non so se lo facciamo perché abbiamo bisogno di sfogarci, per dimenticanza, per leggerezza o per una sorta di supponenza, ma il risultato spesso dà origine ad una sorte di Babele social dove nessuno sembra avere più voglia di ascoltare gli altri né tantomeno di capirli; e i «mi piace», sempre più spesso, vengono lasciati un po' a casaccio, come pacche sulle spalle, date per condire via l'interlocutore col minore sforzo possibile.
Ci sono, per fortuna, anche tanti post di valore. Ben fatti, ben scritti, ben spiegati. Che non danno nulla per scontato e che hanno rispetto per chiunque li legga. E sono quelli che ottengono più successo. Che fanno la differenza. Perché il punto a ben vedere è proprio questo: la comunicazione efficace (ad ogni livello) è quella che non dà niente per scontato. Che sceglie le parole con cura. Che mette le persone alla stessa altezza in modo che possano guardarsi negli occhi così da capirsi meglio.
Potrà sembrarvi una cosa scontata ma per comunicare bene bisogna comunicare con cura. Solo così si ottiene un dialogo vero anche nel digitale. Perché il problema, prima ancora che la tecnologia, gli algoritmi e tutto il resto siamo noi. E sta a noi non sprecare le occasioni di dialogo per crescere e far crescere.
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