sabato 13 giugno 2020
Il lutto per oltre trentamila morti forse ha lasciato nel sentire comune del Paese qualcosa, che prima non c'era. Da mesi non si vede sui giornali un titolo su eutanasia o suicidio assistito. Queste rivendicazioni, fino a poco tempo fa popolari, almeno per il momento tacciono. Non è un buon momento per parlare di “diritto alla morte”. Chi ha perso un padre o un amico nella tempesta del Covid, senza magari neanche poterlo salutare, non ha interesse ora per il “diritto alla morte”. Chi ha il dubbio che una persona cara, nella tragedia che ha ridotto in certi momenti alcuni ospedali del Nord a ospedali di trincea, non abbia avuto tutte le cure possibili, ora vorrebbe piuttosto sentire parlare di diritto alla vita. Alla fine di febbraio mancavano, drammaticamente, i respiratori artificiali. Si leggono testimonianze secondo cui il respiratore veniva dato a chi aveva più possibilità di farcela. Terribile, ma è esattamente ciò che accade in un ospedale da campo, dove il chirurgo opera chi può sopravvivere, e non il moribondo. È la durissima legge della guerra: e anche a Bergamo, Alzano, Nembro, Lodi, Brescia, è passata una guerra. Fino a pochi mesi fa, l'essere un malato tenuto in vita da un respiratore artificiale sembrava accanimento terapeutico. Di colpo ci siamo
trovati a implorare quelle macchine, a richiederne disperatamente, urgentemente, ai produttori. La morte è passata vicina a molti, nel Nord, e ne abbiamo sentita l'ombra addosso. Anche noi sani. Ci chiedevamo: e se mi ammalassi ora, ci sarebbe un respiratore per me? I camion dell'esercito carichi di bare che uscivano da Bergamo, lenti in una notte di marzo, ci restano nella memoria, indimenticabili. Come dopo ogni guerra, c'è voglia di vita ora, non di morte. Nemmeno “dolce”. È l'istinto della vita, messo alla prova, che risorge, più forte.
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