Quando all'inizio di gennaio del 1960 morì in un incidente stradale provocato, secondo alcuni, dai servizi segreti sovietici, Albert Camus aveva quarantacinque anni e tre anni prima aveva ricevuto il premio Nobel per la letteratura. Stava ancora scrivendo il più bello e autobiografico, il meno letterario dei suoi romanzi, Il primo uomo, rimasto incompiuto e uscito postumo solo nel 1993. Eppure, nonostante la fama internazionale dei suoi libri, da diversi anni soffriva sia per gli attacchi variamente denigratori di comunisti e filocomunisti, sia per la sensazione che la propria vena creativa si stesse esaurendo e che Parigi non fosse mai stato per lui un ambiente adatto.
Solo in quel gennaio 1960 appresi dai giornali che era scomparso uno dei più rappresentativi scrittori contemporanei, un filosofo e narratore "esistenzialista", di umili origini, un intellettuale francese nato in Algeria, politicamente "impegnato", ma per il quale la libertà di pensiero era più importante di qualunque ideologia e appartenenza partitica. Ero un liceale diciassettenne di famiglia operaia, scontento delle convenzioni opprimenti della cultura scolastica e immerso nella ricerca di autori che mi aiutassero a capire il mondo sociale e l'origine dei miei problemi. Proprio nei giornali che diedero notizia della sua morte devo aver trovato una frase di Camus che trascrissi subito sul primo libro che lessi di lui, L'uomo in rivolta, una frase che esprimeva le amarezze e la solitudine in cui era vissuto nei suoi ultimi anni: «Gli altri si persuadono delle tue ragioni, della tua sincerità e di come siano gravi le tue pene solo quando sei morto. Finché vivi, il tuo è un caso dubbio».
Il successo e il premio Nobel, che molti intellettuali avevano considerato precoce o immeritato, per Camus non significavano molto. In fondo negli ambienti culturali borghesi aveva continuato a sentirsi un estraneo. Era sempre stata la coppia vita-morte a ispirare le sue prime e mai concluse riflessioni sull'assurdo, sull'estraneità dell'individuo di fronte al proprio destino naturale e sociale. Aveva sempre saputo che in ogni singola vita c'è sempre qualcosa di essenziale che è difficile o forse impossibile far capire, anche se si scrivono libri. Nelle due opere più famose, quelle con cui a ventinove anni aveva esordito, il saggio Il mito di Sisifo e il romanzo Lo straniero, pubblicati nel 1942, si trovano già le formulazioni fondamentali del suo pensiero. Il primo e l'ultimo problema filosofico, il più sostanziale, è se la vita valga o no la pena di essere vissuta: ma soprattutto perché viverla e come viverla, nonostante i molti irrisolti misteri che la accompagnano. Secondo il mito, Sisifo è condannato a spingere in cima a un monte un masso che ogni volta rotolerà di nuovo a valle. È una delle più perfette immagini dell'assurdo in cui viviamo. Eppure la frase con cui Camus concludeva il suo libro è questa: «Bisogna immaginare Sisifo felice». Nonostante tutto, o per solidarietà con la solitudine degli altri.
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