Il paesaggio si svuotò. I bei boschi carichi di bacche multicolori lasciarono poco a poco il posto a una steppa bruciacchiata. La terra somigliava a una lamiera ondulata e arrugginita. Pochi alberi gracili tendevano i loro rami simili a mani nodose. Qualche uccello planava con le tergiversazioni di un vecchio sacchetto di plastica. I ruscelli si perdevano in morti acquitrini dove venivano a bere animali magri e slavati: corte gazzelle dal pelo imbiancato, lontre dai lunghi baffi grigi, trampolieri smorti e vacillanti sulle zampe… Al nostro passaggio sollevavano la testa, strizzavano gli occhi, tremavano un istante e poi si rimettevano a lappare la loro pozzanghera, troppo stanchi per fuggire. Il giorno stesso faceva fatica ad alzarsi. L'alba aveva barattato i toni del rosa con un giallo di cera. Il mezzogiorno si colorava ancora d'oro, ma di un oro smorto, torbido, itterico, un oro senza fuoco che nessuno vorrebbe mai per fare gioielli. Le nostre ombre ci strisciavano davanti come cani stremati. Fratel Ugo mi indicò l'orizzonte. Presentava una linea perfetta, tranne un segmento irto di alte pietre grigie. Dopo un quarto d'ora di cammino vedemmo che quelle pietre erano disposte in cerchio, come i megaliti di Stonehenge: enormi indici di pietra che concentrano le energie del suolo per puntarle verso il cielo. Dovevano delimitare uno spazio rituale. Ne proveniva un canto strano che mi avrebbe fatto pensare a un coro gregoriano se non fosse che era costituito più da rantoli che da voci, raschiamenti di gola, sibili sfiatati e flatuosità particolarmente rimbombanti. Eravamo pronti a scoprire di tutto tra le dita divaricate di quei megaliti: un sacrificio umano, per esempio, o delle menadi nude e in trance… Non ci aspettavamo di certo un tale spettacolo: una cinquantina di vecchi rannicchiati a uguale distanza in seggi di marmo nero, come se si stessero scaldando all'ultimo sole, seduti sulla loro stessa tomba. Erano uomini o donne ? Impossibile dirlo. Avevano raggiunto quel grado di senescenza dove la differenza sessuale sembra abolita, dove con lo scheletro già esposto e la carne marcescente uno non sa che farsene degli attributi dell'amore e della fecondità. Un sudario ricamato di fiori pallidi avvolgeva ciascuno di loro con cura, come pacchi pronti alla spedizione. Ciò che impediva di prenderli per cadaveri fatti e finiti era la vibrazione delle loro membra che agitava il tessuto come un improbabile bozzolo. Avevano tutti la malattia di Parkinson. Probabilmente anche la malattia di Alzheimer. Forse anche uno o due cancri oltre a un'innegabile patologia respiratoria. Dalla loro bocca socchiusa colava un filo di bava, unica corda trasparente dell'arpa sulla quale modulavano la loro agonia. Per uno strano effetto acustico, la corona di menhir faceva da cassa di risonanza. Il minimo gorgoglio ne usciva amplificato come se uno avesse posto l'orecchio il più possibile vicino alle loro labbra per raccoglierne l'ultimo respiro. Forse per questa ragione quella visione, che potrebbe sembrare noiosissima, ci teneva col fiato sospeso. Stavamo davanti a una formidabile squadra di centenari selezionati per la loro decadenza olimpica, e stavano giocando la partita della morte per vincere la coppa dell'aldilà. Dovunque sentivamo l'imminenza della fine. Senza sosta ci chiedevamo chi per primo sarebbe passato dall'altra parte del velo. Come erano potuti giungere a un tale stato di rimbambimento avanzato senza l'aiuto di una medicina di punta? Pareva un miracolo. Un miracolo miserando, è vero, che metteva i nostri nervi a dura prova. Per distendere un po' l'atmosfera, diedi una frecciatina a Fratel Ugo: «Tu che ami accompagnare le persone della terza età, eccoti servito!». «Non capisci proprio niente dunque?» replicò senza il minimo senso dell'umorismo, «è una ribellione!». Non vedevo molto bene come quei vecchi bacucchi da ospizio potessero costituire una ribellione. Se fosse stato così, quelli contro cui si ribellavano non dovevano far altro che aspettare il loro imminente. Fratel Ugo tuttavia insistette, incapace di staccare gli occhi da quella corsa immobile, rincarando il suo commento con le parole "insurrezione", "sollevamento", "rivolta straordinaria". Riconosceva una "Marcia per la Vita" portata all'estremo limito? Una manifestazione contro l'eutanasia organizzata dalle persone direttamente interessate? Allo stesso tempo, a causa del loro deperimento terribile, si poteva anche pensare che fosse una manifestazione a favore dell'eutanasia. Fratel Ugo aggrottò le sopracciglia, dispiaciuto della mia mancanza assoluta di comprensione. Da parte mia giudicai la sua ammirazione per quei vecchi un po' eccessiva. Mi indicò allora ciò che fino a quel momento era sfuggito alla mia attenzione. In fondo, dietro a quegli avi cachettici, c'erano uomini, donne e bambini stesi a terra nella polvere. Rivestiti di pelliccia, probabilmente di quella lontra cinerea che avevamo incrociato poco prima, avevano al tempo stesso l'aria di adoratori e di belve in agguato, gli occhi a fessura e le orecchie tese. Di colpo capii ciò che Ugo voleva dirmi. Eravamo veramente di fronte a una ribellione, una dissidenza uscita dai Pedag o una scissione di una tribù-madre che un tempo contemperava le due tendenze. I Pedag infatti adoravano l'infanzia mentre quelli che ci stavano davanti idolatravano la decrepitezza. Fratel Ugo probabilmente preferiva questi ultimi. Da parte mia avevo già il presentimento di quanto sarebbe stato difficile far loro accettare un Redentore che non aveva superato i trentatré anni. Improvvisamente accadde qualcosa o piuttosto nulla: come designare l'avvenimento del nulla? Uno dei vecchi aveva appena reso l'anima. I giovani avevano percepito una voce di silenzio sottile. Si alzarono tutti come un solo uomo, si precipitarono intorno al suo seggio, si inchinarono tre volte e poi esplosero in yuhuu e hurrah, portando in trionfo il corpo inerte. Il nonno aveva azzeccato il grande salto. Era balzato più lontano di qualunque atleta. Bisognava onorare il grande campione.
(19, continua. Traduzione di Ugo Moschella)
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