Tre settimane fa L'Osservatore Romano, in vista della visita in Iraq che Francesco sta compiendo proprio in queste ore, ha pubblicato un articolo del cardinale Giovanni Battista Re nel quale si ricostruiscono le ragioni del mancato precedente di Giovanni Paolo II, che avrebbe dovuto recarsi in quel martoriato Paese all'inizio del dicembre 1999. Nell'articolo Re, all'epoca dei fatti sostituto della Segreteria di Stato vaticana, ripercorrere i retroscena all'origine dell'annullamento di un viaggio già annunciato, che avrebbe dovuto essere la prima tappa dei pellegrinaggi ai luoghi della salvezza – Ur, Monte Sinai e Israele – che Giovanni Paolo II desiderava compiere in occasione del Giubileo del 2000. Quella del porporato è una ricostruzione minuziosa della complessa situazione che la visita doveva superare, dai primi incoraggianti sondaggi della diplomazia vaticana alla ferma contrarietà espressa dagli Stati Uniti, al definitivo stop di Saddam, che avrebbe voluto rinviare la visita. «In realtà – conclude Re nel suo articolo – la visita di Giovanni Paolo II in terra irachena avrebbe probabilmente orientato a trovare una soluzione pacifica, tanto più che in realtà né il sospettato programma nucleare segreto né le armi chimiche esistevano, come poi risultò. Un punto sembra certo: se quell'infelice guerra non avesse avuto luogo non avrebbero probabilmente avuto luogo neppure le cosiddette "primavere arabe" con le conseguenze da esse portate, né l'attuale guerra in Siria che dura ormai da sei anni, né il sedicente Stato islamico, almeno per quanto riguarda le basi che esso riuscì ad avere in Iraq e in Siria. E di conseguenza neppure vi sarebbero oggi i numerosissimi profughi che fuggono dalla guerra verso l'Europa per sottrarsi alla morte. Né i migranti che, spinti dalla fame, cercano una prospettiva di futuro, mentre non pochi di essi, purtroppo, periscono tragicamente in mare, rendendo ancora più grave un'emergenza che non sembra avere fine. È una pagina di storia che fa pensare».
Tutti interrogativi più che giustificati, tanto più alla luce delle conseguenze dell'attacco che nel marzo del 2003 gli Stati Uniti e i loro alleati sferrarono e che causò la radicalizzazione di tutta l'area mediorientale e la diffusione del fanatismo. Tutte cose sulle quali Giovanni Paolo II aveva messo in guardia il presidente Usa George W. Bush e che il suo delegato personale cardinale Pio Laghi ribadì nel colloquio consegnando all'inizio di marzo al presidente la lettera in cui il Papa chiedeva di non scatenare la guerra. Anche perché Bush, quella lettera neppure la volle aprire, né al porporato fu permesso di incontrare la stampa (e quando, il giorno dopo, trapelò la notizia del silenzio imposto a Laghi, questi ricevette una telefonata dal Dipartimento di Stato che gli chiedeva di chiarire con i media che non gli era stato proibito di rilasciare un'intervista alla Casa Bianca: «Siete voi che dovete chiarire – rispose il cardinale – perché voi avete preso la decisione»).
Oggi Francesco sta finalmente realizzando quel pellegrinaggio sulle orme di Abramo tanto desiderato da Wojtyla e rimasto irrealizzato. «Da tempo – ha detto Francesco mercoledì all'udienza generale – desidero incontrare quel popolo che ha tanto sofferto, incontrare quella Chiesa martire». Sta succedendo ora, adesso. E certo quello che è stato non si può riscrivere, ma si può cambiare il futuro. Nel segno di quella fratellanza universale che è il sogno di Francesco.
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