giovedì 7 aprile 2022
Quando ci ripenso, ancora mi vengono le lacrime...
«A cosa ripensi Ale?»
Al piccolo Omran. Il bimbo siriano di cinque anni estratto vivo dalle macerie, dopo un raid russo ad Aleppo. Era l'agosto del 2016. E quell'immagine ci trafisse il cuore: il volto per metà una maschera di sangue, i piedi nudi e il corpicino ingrigito dalla polvere. Se ne stava attonito, immobile, lo sguardo nel vuoto. Su quella sedia arancione dell'ambulanza dove uno dei soccorritori l'aveva adagiato come una bambola rotta... Te lo ricordi?
«E come potrei scordarlo. Indimenticabile. Tanto che insieme azzardammo: "E se lo adottassimo"? Ma per fortuna qualche giorno dopo sapemmo che il padre era sopravvissuto al bombardamento. Divenne il simbolo di quella guerra. Come Alan Kurdi, tre anni. Piccolo siriano in fuga, insieme alla famiglia, dall'orrore che aveva devastato la sua terra. Il mare traditore restituì quella povera anima a faccia in giù sulla battigia di una spiaggia turca. Maglietta rossa, pantaloncini scuri e le scarpe allacciate con cura. Poco lontano, giaceva il fratellino di cinque anni. Mi tornano in mente anche le piccole vittime dell'Olocausto; i bambini jihadisti mandati a morire in battaglia o negli attentati con i mitra e le cinture esplosive, i piccoli somali che la fame e le malattie trasformano in esili fantasmi disperati».
Nei tuoi reportage hai incontrato spesso l'orrore negli occhi dei bambini e non solo per la guerra...
«Molte volte. Troppe, Ale. Ricordo lo strazio dell'India. Arrivato a Bombay, una città che stenti a capire come possa tenersi in piedi tanto è tarlata dalla miseria, mi colpì il numero sterminato di piccoli zoppi. Molti avevano accanto uno straccio su cui deporre qualche spicciolo; oppure, se appesi al collo di un adulto, stendevano la mano simile a una zampina d'uccello scura e lucente. Tutti vivevano di elemosina. Comprati nei villaggi poco dopo la nascita, finivano tra le grinfie delle "mammane" per essere trasformati in oggetti di pietà. Con una manovra improvvisa delle dita sui fianchi della tenera vittima, l'aguzzina rompeva loro i femori. In un attimo – mi raccontavano le guide del posto – e senza neppure un lamento. E non ho scordato quel che vidi a Saigon. Un ragazzo mi aveva preso sul triciclo all'aeroporto e mi portava verso la città. Non avevo mai visto tanti bambini indaffarati, neppure in India: una guerra orrenda ne aveva fatto ladri, mediatori, trafficanti. Fra i mercati che Saigon metteva in mostra nella sua sconfinata perversione, c'era quello dei residuati: un enorme emporio di ordigni più o meno efficienti, alimentato dai bambini. Partivano di giorno, per tornare dopo qualche tempo con gli avanzi della battaglia. Negli ultimi mesi di guerra l'esercito sud-vietnamita trovò in quegli assurdi arsenali tutto ciò che poteva servirgli. Erano stati trasformati in piccoli ladri di guerra guidati dalla fame. Sì Ale, in giro per il mondo e in epoche diverse, ho visto spesso l'orrore negli occhi dei bambini. Creature alle quali ogni conflitto, ogni povertà, ogni degrado, toglie per sempre la speranza di una vita degna. Di un futuro. Bambini morti, feriti, violati, mutilati, orfani. Umiliati. Piccoli ai quali è stata rubata per sempre l'innocenza nel nome di un risiko crudele, spietato. Infinito».
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