Roma è la mia città. Decido di raggiungere il giardino degli aranci, sul colle dell’Aventino, partendo dal Lungotevere, come sempre intasato di traffico anche se è mattina, molto presto. Salgo le scalette invase dalle cartacce e dall’erba ancora umida nella solitudine più assoluta. Prima di conquistare il belvedere, in un angolo grigio proprio sotto la balconata, vedo un uomo che, con ogni evidenza, ha trascorso la notte lì accovacciato. Dev’essersi appena svegliato perché si sta risistemando i vestiti tutti spiegazzati. Davanti a sé ha messo un vecchio ombrello aperto utilizzato come parete di protezione dalle intemperie. Faccio appena in tempo a riconoscere, nella sua fisionomia, il ghigno astratto del malato mentale: vizio di forma impossibile da rubricare nelle categorie sociali inventate dai nostri simili o strada laterale della natura diretta altrove. Quando infine arrivo in cima e l’antica capitale si mostra beata e sorniona nel suo decrepito frantume di ponti, campanili, alberi, cupole, acque e palazzi, nonostante l’irresistibile spettacolo a cui assisto, non riesco a togliermi dalla mente gli occhi del vagabondo che ho appena incrociato: erano un lampo d’elettricità intermittente alimentato da non so quale splendore.
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