È passato così tanto tempo che il suo nome l'ho smarrito in qualche angolo del mio intimo mondo di mille ricordi. Mi chiedo se è ancora vivo. Se ce l'ha fatta a diventare vecchio sulle sue montagne, così alte da accarezzare il cielo. In quella sua casupola fatta di fango impastato con la paglia, dove si dormiva stando accovacciati per terra, con accanto le capre. Guardo una vecchia fotografia in bianco e nero, che conservo in una scatola di carta da stampa fotografica Kodak insieme a molte altre memorie di viaggi lontani nella geografia e nel tempo, e mi viene inevitabile d'avere un pensiero triste. Di lui non è rimasto più alcun ricordo?
Ma è solo un attimo, e di quel pensiero irriverente provo pudore. Di lui, invece, qualcosa resta, oltre a quella foto che lo ritrae e che io conservo, ed è il mio personale ricordo. Traccia ancora vivida, qui e adesso, a migliaia di chilometri dalla sua storia e dalla sua, chissà quale, sorte. Che temo funesta, però. La sua solitudine di piccolo uomo la incrociai quando già viveva la sua vita di bambino-combattente. Dico uomo, perché in Afghanistan lo si diventa, più o meno, a dieci anni di età, per necessità o per forza. È a quell'età, se non anche molto prima, che ti mettono a governare un gregge di capre sulle montagne e devi avere anche imparato a praticare di fucile, per difendere gli animali dai predatori; è a quella stessa età che se c'è una guerra avrai già imparato quanto è facile uccidere un uomo.
Chiudo gli occhi e lo rivedo ancora con quel suo sorriso fresco di bimbo, perché era pur sempre un bambino, lì davanti a me. Impettito d'orgoglio alla vista dello straniero, a cui poter mostrare il suo "giocattolo". Che teneva appoggiato sulla spalla destra, con vanto e superbia di vero guerriero. Il bambino-soldato aveva un missile terra-aria. Lo puntava dritto e minaccioso contro il cielo azzurro, scrutava l'orizzonte. Chiudeva l'occhio sinistro e prendeva la mira. Mentre attorno era un coro di risate divertite di altri combattenti.
Quell'apparato di lancio, lungo un metro e mezzo, pesante una decina di chili, comandava un missile in grado di abbattere il volo supersonico di un aereo cacciabombardiere intercettato anche a ottomila metri di altezza; e io, intanto, mi domandavo se quel bambino aveva la consapevolezza di quanto poteva costare quel giocattolo di morte, smaltato verde militare. Era un terra-aria "Stinger", un missile statunitense, a ricerca di calore. Pregiata tecnologia militare per quegli anni nel corso della guerra d'Afghanistan contro l'invasione sovietica. Un'arma che avrebbe ribaltato le carte in tavola, segnando la vittoria dei partigiani afghani e la sconfitta del potente Orso sovietico.
No, quel piccolo uomo non aveva la benché minima coscienza di quanto costava quella "cosa" che teneva sulla sua spalla: un tesoro di svariate migliaia di dollari. Da mandare in fumo con un semplice scatto del dito indice sul grilletto di sparo. Se poi abbatteva anche il suo bersaglio, un aereo da caccia russo, al falò dell'inutile distruzione si aggiungevano altri milioni di rubli.
Quel piccolo combattente delle montagne era nato con la guerra, cominciata il giorno di Natale 1979. Era cresciuto con la guerra, diventava grande circondato dai rumori della guerra. Gli avevano insegnato a maneggiare un missile-terra aria. Invece che insegnarli a tenere in mano una matita e aprire un quaderno. Perché?
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