Quei due punti del campione zoppo
mercoledì 29 gennaio 2020
Ci sono atleti che fanno la storia dello sport, ce ne sono altri che entrano dritti in altro territorio, quello dell'epica. Se è vero che la magnitudine di un campione si misura dalla capacità di far emozionare milioni di tifosi, la stella di Kobe Bryant splenderà per sempre nel firmamento dello sport mondiale. D'altronde, a tutt'oggi, non esiste un altro atleta che sia stato capace di vincere due medaglie d'oro ai Giochi Olimpici e un premio Oscar. Ci sono momenti della carriera di Kobe Bryant che trasudano perfezione: riguardare, per esempio, gli ultimi tre minuti della sua ultima partita contro gli Utah Jazz è un esercizio che addestra alla bellezza dello sport.
Kobe era in trance, qualunque cosa facesse gli veniva perfettamente. Una rimonta pazzesca, una vittoria firmata dai suoi 60 punti, davanti agli occhi di quella sua adorata figlia, Gianna Maria. In quei tre minuti Kobe si trasformò nel basket e il basket, la cosa per cui Kobe era nato, si impossessò del corpo del campione, trasformando in realtà le parole di quella dolcissima lettera che Kobe aveva dedicato al suo sport, quando, qualche mese prima, aveva preso la decisione di lasciarlo: «Ci siamo rispettivamente dati tutto quello che avevamo».
Ma c'è un altro episodio della carriera di Kobe Bryant che mi fa venire i brividi: il 13 aprile 2013, si gioca allo Staples Center, la casa dei suoi Los Angeles Lakers: una gara tiratissima, punto a punto. The Black Mamba si fa male una prima volta, ma va avanti. A pochi minuti dal termine, si fa male di nuovo. Molto male. Si rompe il tendine d'Achille. Un infortunio tremendo, di cui lui dichiarerà di avere capito subito l'entità. Non sto a fare retorica, dico solo che me lo sono rotto anche io, il tendine di Achille. Semplicemente si urla dal dolore e non si riesce proprio a stare in piedi. Kobe ha subito un fallo, prima di rompersi. È a terra e si tiene la gamba con le mani. Poi si rialza. Un essere umano normale sarebbe già sulla barella, lui si rialza e si porta sulla linea del tiro libero, camminando come un robot. Si fa dare la palla dall'arbitro e tira i due tiri liberi che si era guadagnato. Due canestri, due punti. Poi si gira e molto lentamente esce da quel campo dove potrà rientrerà solo otto mesi più tardi.
Chiunque abbia fatta sport sa esattamente a cosa mi riferisco: è una cosa davvero ai limiti dell'umano, ma c'è tutto Kobe Bryant in quel gesto. La sua ossessione per la fatica, le sedute da solo con il preparatore, alle 4 del mattino, a provare un tiro fino a quando i suoi compagni arrivavano per l'allenamento mattutino. C'è tutto Kobe in quei due punti segnati con il tendine di Achille rotto e c'è quella sua idea di restituire al basket ogni gioia e ogni dolore ricevuto. Anche il suo ultimo viaggio lo stava portando in una palestra, dove stava sbocciando una nuova vita cestistica: quella di Gianna Maria, talento assoluto, che oggi vediamo in strazianti immagini tirare a canestro contro il papà. «Non serve un maschio per rivedere un Bryant sul parquet, ci sono io» diceva Gianna, ragazzina dalle idee chiare, il cui addio alla vita, insieme alle altre sette persone morte nell'incidente di volo, rende immensamente più insopportabile questo strazio. Kobe, quello che tirò e segnò due tiri liberi con il tendine di Achille rotto, non c'è più. «Mamba out» come disse in un palazzetto adorante il giorno dell'addio, facendo cadere il microfono ai suoi piedi e ispirando perfino Barak Obama che replicò quella gag il giorno in cui lasciò la Casa Bianca.
Di mille immagini di schiacciate, di gesti di prepotenza fisica, di forza esplosiva, mi tengo quei due tiri liberi da zoppo, con la faccia attraversata da una smorfia di dolore. Due canestri consecutivi, due punti di una partita che sarebbe poi finita, guarda un po', 118-116 per i suoi Lakers.
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