Il termine "mattone" per indicare romanzi inutilmente ingombranti, indigesti, che ci pesano addosso con la loro candida o furba supponenza, è un termine che rischia l'inflazione. L'editoria produce sempre più mattoni e incoraggia gli autori di mattoni. La metafora sta perdendo originalità. Chi entra nelle librerie si imbatte subito in uno o più muri messi insieme con libri-mattone, o mattoni in veste di libri, che verranno comprati da una quantità di poveri lettori in cerca di certezze e che saranno letti fino in fondo solo da pochi autolesionisti.
Sembra che si sia diffuso il panico per il libro inferiore alle duecento pagine; si ha paura che qualcuno potrebbe definirlo "libretto", con un diminutivo dispregiativo. Se almeno per scrivere il loro mattone gli autori impiegassero diversi anni sarebbe già qualcosa. Ma il mattone è generalmente un frutto della fretta, è così lungo e greve perché l'autore non si è preso il tempo di tagliarlo, cioè di migliorarlo.
Ma c'è qualcos'altro. Il culto del mattone dipende anche da megalomania culturale. Una sera, per caso, mi sono trovato a cena con uno scrittore notevole, purtroppo divenuto noto per la sua presunzione. A un certo punto, non ricordo perché, ho nominato Graham Greene come esempio dell'ottimo artigianato narrativo degli inglesi: al che lo scrittore italiano ha prontamente dichiarato che Graham Greene è uno scrittore mediocre e che veramente grandi sono solo Proust, Joyce e Nabokov. Non c'era aria sufficiente per discutere. Io volevo dire soltanto che se la narrativa inglese è sopravvissuta bene alle avanguardie e alla Teoria, mentre quella francese si è autodistrutta, questo si deve al fatto che per gli inglesi è bene che l'artista resti un artigiano, prima di posare da genio.
Ho l'impressione che oggi i mattoni siano scritti soprattutto da autori infatuati, che cercano di sembrare geni scrivendo il più alto numero di pagine. È un guaio. I mattoni sono tanti, si vede una pila di mattoni, ma la casa dov'è?
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