Tra i neologismi catalogati dal sito della Treccani compare anche l'aggettivo invariabile "social": è social colui o colei «che utilizza la Rete come luogo di condivisione e scambio di informazioni ed esperienze». Così lo intendo anch'io e così lo intende don Alessandro Palermo, che titola: «Tre volti che rendono social la Chiesa cattolica (la Santa Sede)» il suo ultimo post sul proprio blog ( tinyurl.com/yafg4uz2 ).
Egli ricorda, in premessa, che «rendere social una realtà ecclesiale vuol dire creare occasioni in cui promuovere e condividere esperienze di dialogo e di riflessione facendo leva sulle dinamiche digitali dei social media», ma ho l'impressione che i casi di cui parla vadano più in là di questo «promuovere e condividere», che in ogni caso non può e non deve, evidentemente, rimanere fine a se stesso. Due dei tre volti che recensisce sono infatti anche volti della «Chiesa che serve», giacché riguardano i presìdi digitali (un sito e i principali social network) dell'Obolo di San Pietro e della sezione Migranti e rifugiati del Dicastero per il Servizio dello sviluppo umano integrale. In entrambi i casi vengono per queste vie condivise e fatte circolare immagini e notizie degli interventi e delle opere di carattere "sociale" che le due istituzioni svolgono, e parallelamente si mette a disposizione il canale oggi più pratico, che è appunto quello digitale, per contribuirvi attraverso una donazione e in tal modo, come è scritto sull'homepage del sito dell'Obolo, «partecipare a un comune cammino di misericordia».
Torno al vocabolario Treccani online e vedo che per chiarire il significato di "sociale" inteso come sostantivo, ovvero «tutto ciò che concerne la vita, le relazioni, i problemi di una determinata società e dei suoi componenti», esso fa l'esempio di «una Chiesa, o un vescovo, un sacerdote, ecc., che affianca la cura del sociale a quella spirituale». Si direbbe che questa cura del sociale passi, oggi, anche dai social.
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