Ci sono due immagini, apparentemente così distanti eppure in qualche modo collegate, emerse dalla cronaca delle ultime settimane. La prima, drammatica nella sua staticità, ci parla di un bambino di dodici anni, bloccato da due agenti della polizia curda. Gli immobilizzano le braccia per impedire che si faccia saltare in aria, perché intorno al petto ha una cintura esplosiva. La indossa sotto la maglia numero 10 del Barcellona, quella di Lionel Messi. La seconda, più recente, risale all'amichevole Italia-Francia disputata a Bari quando il capitano degli azzurri Gigi Buffon, ha “parato” i fischi che stavano arrivando all'esecuzione della Marsigliese, chiamando con ampi gesti gli applausi e meritando il ringraziamento di François Hollande al premier Matteo Renzi, niente di meno che nel corso del G20 ad Hangzhou. Due episodi così diversi, ma che letti insieme sono capaci di raccontarci della forza e, insieme, dell'enorme responsabilità che il calcio porta con sé.In questo contesto anche una partita come quella di lunedì sera della nostra nazionale, ad Haifa, Israele aggiunge tanti significati a quello sportivo. Perché può capitare di pensare che essere di fronte a uno spettacolo sportivo ci faccia in fondo scorgere le stesse immagini, trarre le stesse considerazioni, sentire gli stessi commenti a prescindere dalla parte del mondo in cui quello spettacolo si svolge. In realtà non è così. Ci sono posti del mondo dove fare sport, e farlo bene, significa aprire una breccia nella realtà. Me sono accorto di persona grazie alla pallavolo che nell'arco di venticinque anni di carriera mi ha permesso di andare in Bielorussia e in Ucraina nei primissimi anni dopo la disgregazione dell'Unione Sovietica, in Egitto a giocare in un palazzetto riempito esclusivamente di militari, in Iran di fronte a dodicimila spettatori tutti uomini, perché alle donne è proibito (fortunatamente questo “è” anche grazie alla pallavolo pare sia diventato un “era”) assistere a spettacoli sportivi. Mi è successo osservando il pubblico giapponese, quello cinese e quello coreano, geograficamente (è un po' banalmente) per noi molto vicini, ma in realtà così diversi. In Canada, Usa o in Australia, dove lo spettacolo sportivo è invece uno show a tutto tondo. In Brasile, giocando alle nove del mattino di fronte a migliaia di persone inebriate da musica a tutto volume, balli, canti e coreografie. Mi è successo proprio in Israele dove lo sport è uno strumento per dimostrare e respirare normalità. In sostanza, in tutti i posti del mondo dove ho avuto l'onore di essere protagonista di uno spettacolo sportivo, mi sono accorto di come, molto più spesso di quanto crediamo, lo sport si svuoti dell'aspetto agonistico e si riempia di significati diversi che hanno a che fare con la visione del mondo da un punto di vista politico, sociale, intellettuale. Non sono mai stato a giocare in Palestina, ma conosco Rani Hussein Asfur, ex giocatore professionista che ha deciso, da qualche anno, di insegnare mini-volley in Cisgiordania. Lo fa con una perseveranza e una passione tale che ha fatto sì che la Fivb (Federazione internazionale di pallavolo) prendesse a cuore il grande torneo che annualmente Rani organizza a Ramallah. Con buona pace di Donald Trump, poi, da dieci anni nel mese di aprile si svolge al confine tra Messico e Usa un torneo di “Wallyball”: la barriera di separazione che divide Naco-Messico da Naco-Arizona viene usata come rete di pallavolo. Le due squadre giocano... entrambe in casa, ma la loro partita è uno degli spot più belli di come lo sport possa essere fattore di unione. Nel maggio dello scorso anno si diffuse la notizia di una possibile amichevole fra le squadre nazionali di Israele e Palestina. Pare lo volesse Sepp Blatter, allora presidente della Fifa, avvitatosi poi in una serie di scandali che certamente lo hanno occupato in altri pensieri. Sarebbe bello se l'italo-svizzero Gianni Infantino riproponesse quell'idea. Ecco, quel giorno vorrei esserci.
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