domenica 26 marzo 2017
Bisogna ormai sforzarsi parecchio per non fare nulla. Quasi quanto per fare qualcosa. Ci muoviamo in un mondo dove non si fa più un granché (in particolare con le mani) pur essendo sempre impegnati (in particolare con gli occhi). Senza tregua, bisogna seguire il flusso delle notizie, manipolare i dati, far scorrere le slides, diventare uno smiley "personalizzato" grazie a Bitmoji…
Tra girare i pollici e giocare coi pollici su uno schermo tattile, la frontiera è sottile se non assente, e non è raro che una frenesia di ricerche su Internet porti, a cose fatte, abbastanza esattamente al nulla. Oscilliamo senza tregua tra lavori vuoti e divertimenti estenuanti, tra un'attività virtuale e un sonno agitato, tra uffici che vorrebbero essere ludici e discoteche che somigliano a stabilimenti industriali. Sisifo era più fortunato, lui perlomeno metteva alla prova il suo corpo contro la solidità della roccia. Ecco perché appare sempre più necessario fare un passo di lato, o almeno reimparare
a non far nulla per ricominciare a fare qualcosa…
È così che si può capire la moda della mindfulness, detta anche “meditazione vigile”, “piena presenza”, “silenzio mentale”, “attenzione giusta”, “risveglio spirituale” o, per i conoscitori, «quinto elemento del nobile ottuplice sentiero» (a meno che non sia il settimo). Curiosamente, Fabrice Midal, autore di numerosi libri di questo tipo, afferma che «oggi si medita di più in Occidente che in Oriente» e che «il successo della meditazione viene innanzitutto dal modo in cui la scienza ha misurato concretamente il suo impatto». Di fatto, Richard Davidson, direttore del Laboratory for Affective Neuroscience del Wisconsin, ha piantato degli elettrodi su alcuni soggetti “pienamente coscienti” (vale a dire poco coscienti del loro status di cavie) e ha mostrato che questa pratica «aumenta la sincronizzazione delle onde cerebrali tra parti molto lontane del cervello».
In Francia, è lo psichiatra Christophe André che, convinto dal suo carattere “dimostrato scientificamente”, è diventato uno dei promotori della mindfulness. Il suo libro Trois minutes à méditer («accompagnato da un cd mp3 che contiene 40 esercizi guidati dalla voce dell'autore») promette di insegarci a «resistere ai mali della nostra epoca: egoismo, materialismo, dispersione digitale».
Uno dei più grandi maestri della mindfulness è un dirigente di Google, al tempo stesso ingegnere, milionario della multinazionale e candidato al Premio Nobel della Pace: Chade-Meng Tan. Ha pubblicato un bestseller dal titolo eloquente: Search Inside Yourself (scritto negli stessi caratteri colorati del famoso motore di ricerca): The Unexpected Path to Achieving Success, Happiness (and World Peace). Bisogna sapere che non ci sono chiese nel campus di Google a Mountain View nella Silicon Valley ma everyone is meditating, c'è una sala piena di cuscini dedicata proprio a questo, ci sono mindful lunches e conferenze Wisdom 2.0.
Per quanto riguarda Apple, il giornalista di Wired Noah Shachtman racconta che «Steve Jobs si era rivolto a guru in India e il suo matrimonio era stato celebrato da un prete zen… Trascorreva molto tempo nella posizione del loto ma, nonostante questo, pagava stipendi da schiavi agli impiegati a contratto, si arrabbiava con i suoi subalterni e posteggiava la sua automobile nei posti riservati agli handicappati». Avremmo tuttavia torto di accusare lui o Meng, rivestendoci di un'innocenza alquanto dubbia. Io non sono migliore di loro. Constato solo che la “piena coscienza” non ci impedisce di essere dei poveri peccatori e dunque di dover gridare verso un Salvatore misericordioso.
Abbiamo visto che alcuni dei suoi sostenitori giustificano la mindfulness adeguandosi ai criteri tecno-scientifici. Da un certo punto di vista si tratta di una reazione alla “dispersione digitale”: occorre mettersi in disparte, di cancellare la lavagna magica sovraccarica di informazioni senza pensiero, vuotare la pattumiera affinché possa riempirsi di nuovo. È la valvola di sicurezza del motore, la valvola di sfogo della pentola a pressione… ma per cosa? Meglio Google o Mac per “uno sviluppo più armonioso”?
Una siffatta meditazione non è in rottura, ma in continuità col paradigma tecnocratico. Là dove la preghiera è innanzitutto un'etica, essa è essenzialmente una tecnica (specialmente di respirazione). Non ha come scopo primario quello di volgerci verso qualcuno, all'ascolto del quale dovremmo metterci, ma di produrre qualcosa, uno stato di tranquillità interiore. Beninteso, questa tecnica non manca di criticare l'io, ma non per esporsi o per stringere un'alleanza con l'altro (l'altro non esiste se non di fronte a un io; e l'alleanza esige che ci siano due irriducibili, se non tre, perché è sempre al tempo stesso drammatica e feconda). Essa pretende di riportarci a una situazione anteriore alla distinzione tra l'io e l'altro, prima dell'interlocuzione del discorso – il suo accusativo e il suo vocativo – prima della sorpresa e della responsabilità del faccia a faccia.
Del resto la mindfulness si sforza apertamente di scacciare le “preoccupazioni”: perché ci si dovrebbe preoccupare delle condizioni di lavoro dei contrattisti? La "piena coscienza" appare allora come una fuga davanti alla nostra cattiva coscienza: proprio quella coscienza non piena, ma straziata, ferita, e la cui voce è una supplica verticale.
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