È arrivato l'inverno nella sua magnificenza – tanto bello quanto traditore – diceva una vecchia che sapeva di bellezza e tradimenti. Una coltre di neve ricopre il paesaggio e il gioco dei fiocchi rapisce lo sguardo frantumando l'immobilità e potenziandone l'effetto. È bellissimo, invita al canto, alla preghiera; incute timore. Non bisogna ascoltare radio, televisione, né leggere i giornali: non contemplando l'incanto devono sezionarlo, distruggerlo e lo fanno in nome del bene comune, del vivere sociale. Hanno ragione, ovvio, l'umanità da tempo si è incamminata lungo un percorso che anziché accettare, mettendo a profitto, il ritmo naturale delle cose, lo violenta cercando di costringerlo in uno spazio tempo definito a priori, suddiviso in segmenti che rispondono a logiche esclusivamente economiche. Anche l'uomo è forzato in questa segmentazione, ne riceve in cambio un benessere materiale, indubitabili le comodità acquisite, al contempo cresce una insoddisfazione profonda e la bilancia tra il dare e l'avere oscilla senza trovare equilibrio.
Nel racconto di una vita molte storie si intrecciano con cadenza sconosciuta; ritmi così affievoliti da poter essere considerati esauriti si rianimano d'improvviso. Accadimenti, incontri, ridefiniscono il percorso, permettono un giudizio pacificato sul passato aprendo nuovi spazi al futuro. In questi giorni ho scritto poche righe per una pubblicazione che documenta 25 anni di vita di un locale: si chiama «Hiroshima« sta a Torino. Qualcuno lo considera un luogo di aggregazione dove si fa ottima musica, qualcun'altro un luogo per lo meno sospetto, e c'è chi lo inchioda puro e semplice alla triade: sesso, droga e rock and roll.
Chi si erge a giudice integerrimo dell'altrui moralità fa della propria virtù lo specchio in cui rimirarsi, a cui prostrarsi: non ne può derivare un buon spettacolo. L'«Hiroshima» sa mettere in scena anche ottimi spettacoli. Ricordo quando è nato, era il 1987, da alcuni anni frequentavo la città con i miei concerti e si sentiva l'esigenza di uno spazio per una musica che non fosse solo intrattenimento ma fosse capace di dare voce alle ansie, ai problemi di una generazione che sperimentava, per lo più in condizioni di privilegio, un forte disagio personale e sociale. È diventato ed è rimasto il mio punto di riferimento a Torino, anche i miei ultimi concerti hanno quel marchio.
In 25 anni la città è molto cambiata, nel centro storico solo recuperando le prospettive architettoniche di vecchia Capitale del Regno, si è fatta molto bella; è cambiato anche il mondo intorno non sempre con risultati estetici altrettanto soddisfacenti; siamo cambiati tutti. L'«Hiroshima» è un pezzo di storia, per il solo fatto di esistere in quel modo ha intersecato una quantità inimmaginabile di esistenze, molto diverse tra di loro, irriducibili ad unicità ma anche ad una qualsiasi pretesa di omogeneità che non sia la condizione umana. Un pensiero arrivato da lontano, la stessa direzione da cui arriva la nevicata (burian, Buriati, buriana) mi ha stampato il sorriso sulle labbra e, a colpo sicuro, l'avevo ben riposta, ho ripreso una lettera: «mi chiamo Giorgio, sono sacerdote in una piccola comunità, ero presente al suo ultimo concerto nel luglio scorso, mi trovato a casa per un breve periodo ed essendo di Torino … Ora sono rientrato nell'Uvurkhangai, Mongolia, dove vivo da otto anni. Sembra che la Provvidenza in qualche modo …».
C'è qualcosa al di là delle increspature di superficie, al di la della nostra volontà e della situazione sociale, e ci richiama con forza ad una dimensione più profonda dell'esistere; solo uno smisurato orgoglio riesce a distruggerne le potenzialità facendo il deserto attorno e dentro sé.
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