Alcuni giorni o anni fa, in una piccola città di una non precisata regione italiana, nel corso di una tavola rotonda, si è avuto un diverbio etico-letterario, o se volete filosofico-mercantile fra due figure culturali contrapposte: una forte e prestigiosa, il Manager editoriale, l'altra debole e impopolare, il Critico letterario. Il Manager editoriale, uomo preminente nel dibattito, aveva illustrato le sue strategie per la conquista di nuovi e più numerosi lettori. Il critico letterario, chiamato a dire la sua, aveva formulato una classica obiezione: «E' vero, si legge poco. Sarebbe bene che i lettori aumentassero. Ma quello che mi interessa non è che più lettori leggano più libri, mi interessa qual è la qualità dei libri letti e se la lettura contribuisce alla formazione di un' individuale e pubblica coscienza critica». A questo punto lo sguardo del Manager si è illuminato. Sapeva come rispondere a una simile provocazione. La risposta l'aveva usata altre volte con successo. La ripeté sorridendo e alzando un po' la voce: «Ma queste sono le vecchie obiezioni della Scuola di Francoforte! Sono le obiezioni di chi disprezza la democrazia culturale e il mercato. A me interessa che il numero dei lettori aumenti e che i libri si vendano. Ogni lettore è libero di leggere quello che vuole e come vuole. Non sono un pedagogo. Io produco libri».
Il Critico non aveva considerato che la Scuola di Francoforte, in particolare Adorno e Horkheimer, critici del progresso illuministico, che a volte non è progresso e non è illuministico, vengono spesso evocati come vecchi borghesi inaciditi dal pessimismo sociologico. Ma chi aveva ragione in quel dibattito, il Manager o il Critico? Per il primo i libri sono merce e i lettori sono acquirenti. Per il secondo i libri sono stile e idee, i lettori sono coscienze. Entrambi dicono una cosa vera. L'illusione è che possano capirsi. Ognuno dei due cercherà di servirsi dell'altro per raggiungere i propri scopi. Il conflitto è aperto. La comunicazione no.
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