Cosa ci manca di più? Cosa abbiamo dimenticato di più essenziale? Credo la speranza, di cui in politica (e in letteratura!) era quasi un sinonimo la parola utopia. Sì certo, le utopie dominanti erano negative, esprimevano un pessimismo doloroso o cinico riguardo alla possibilità di un futuro che potesse essere migliore del presente in cui vivevamo, un futuro di pace, di solidarietà tra gli uomini e tra gli uomini e il vivente tutto. L'Ottocento e il Novecento, con la loro pretesa modernità, non hanno fatto che dar spazio alle distopie piuttosto che alle utopie, confermando i pessimisti nelle loro visioni negative del futuro. Il progresso, mentre in una vasta parte del pianeta ci favoriva dandoci beni di consumo a volontà e cultura e tempo libero, ci toglieva la speranza di qualcosa di diverso da un mondo dominato dalla macchina e dal denaro, dall'eterna lotta dei furbi per avere invece che per essere. Ma era anche grazie a questo che nascevano nuovi movimenti e nuove speranze, di cui gli anni Cinquanta e Sessanta furono i più forti portatori e diffusori, con una generazione o due che si sentirono chiamate a inventare il nuovo nelle arti e nella vita, nella visione di una “cosa pubblica” armoniosa, che potremmo anche dire “socialista”. O liberal-socialista. Volevano contare, i giovani, cresciuti dopo una guerra di sessanta milioni di morti, e dire la loro; volevano contribuire all'invenzione di un “mondo nuovo”. Sappiamo come quei sogni siano naufragati, e vediamo molto bene cosa ci attornia, un mondo arido che nella parte privilegiata del pianeta si regge sulle banche e su una comunicazione che non è mai stata, checché ne pensino quelli che smanettano e sproloquiano, così a senso unico: sfogo insensato e inutile, e strumento di un controllo ormai assoluto perfino sulle nostre fantasie, le cattive come le buone... La speranza, e così la fede intesa come fiducia nel futuro, non sembra siano mai state così scarse, e a sopravvivere è semmai (quanto Paolo aveva ragione!) la carità. Sia pure in pochi, e che quasi mai si fa collettiva nell'aspirazione a una realtà liberata. È questo a rendere così grigia (o nera) la nostra esistenza, ché senza futuro, nell'accettazione di un presente manipolato e chiuso, senza carattere e senza aperture, senza un “domani che canti”, i nostri giorni non possono essere davvero allegri, tutt'al più dimentichi, oppiati. Non accettare il mondo così com'è, con le sue ingiustizie palesi o nascoste, con quei poteri distruttivi di cui tutti ci facciamo infine complici, dovrebbe tornare a essere alla base di tutto, anche di movimenti politicamente e moralmente radicali come l'epoca esige. Torna, cara utopia...
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