In tempi di preghiera più diffusa, e a quanto pare più fervida, per impetrare dal Cielo l'uscita dal tunnel della pandemia, anche la Vecchia Europa sembra aver bisogno di un supplemento di anima credente, oltre che di animo, per
rilanciarsi a dispetto dello scenario desolante in cui si trova. Perché in queste 48 ore tra oggi (riunione dei ministri economici) e giovedì (quando i capi di Stato e di governo dei 27 si collegheranno per un vertice straordinario) si giocherà buona parte delle residue chance di salvare il futuro dell'Unione, sottraendola al già troppo incombente virus dei nazionalismi di ritorno.
Dai confronti di oggi e di dopodomani, in effetti, non dipende solo l'accoglimento delle richieste dei Paesi messi economicamente più in ginocchio dal Covid-19, Italia in testa. Né si decideranno i vincitori dell'ennesimo match fra rigoristi e lassisti, fra spensierate cicale e disciplinate formiche. Entrambi gli schieramenti dovrebbero ormai aver preso atto che, seppure uno dei due vincesse a danno dell'altro, incasserebbe la più inutile delle vittorie di Pirro.
In ballo c'è enormemente di più. Il coronavirus, questo è certo, ha messo a nudo più che mai la carenza di leadership continentale, la farraginosità dei meccanismi comunitari che impediscono l'assunzione di decisioni più rapide e condivise. Ma soprattutto sembra aver portato alla luce un fondo generalizzato di rassegnazione, di scetticismo sul destino dell'edificio comune. In definitiva, ha rivelato una mancanza di fede europeista che tante buone parole non riescono più a mascherare.
Sembrano fare eccezione i toni nobili e alti della lettera che il presidente del Consiglio europeo, il belga Charles Michel, ha spedito a Sergio Mattarella. Non tanto per il loro suono lusinghiero e rassicurante verso noi italiani, quanto per aver ribadito con fermezza che «unità e solidarietà» sono i veri «pilastri della nostra Unione», che nessuno Paese può né deve farcela da solo e che proprio in questo principio sta «il senso profondo della comunità di Stati e del modello di cooperazione che l'Italia ha così fortemente contribuito a costruire».
Ma affinché le dichiarazioni di fede si trasformino in azioni coerenti, occorre per l'appunto, mai come in questo momento, un forte sostegno spirituale. Diciamo la verità, di preghiere per l'Europa non se ne fanno molte a livello pubblico e, con ogni probabilità, neanche privatamente ad opera dei semplici fedeli. Segno che anche i cristiani sono rassegnati a veder sfumare quel grande sogno di pace e di collaborazione tra i popoli che soprattutto alcuni grandi politici credenti come loro hanno voluto?
Nel vecchio calendario precedente il Concilio, tre giorni fa sarebbe caduta la festa liturgica di san Benedetto: qualcuno ricorda l'antico saluto alla primavera che si esprimeva con "san Benedetto, una rondine sotto al tetto"? Ora si celebra l'11 luglio, anche se i monasteri che si ispirano al santo di Norcia fanno ancora solenne memoria del suo "transito" il 21 marzo. Ebbene, quale migliore intercessione si può chiedere se non quella del primo "patrono dell'intera Europa"?
Quando Papa Paolo VI gli diede quel titolo, il 24 ottobre 1964, lo definì «messaggero di pace, realizzatore di unione, maestro di civiltà», auspicando la sua protezione «sull'intera vita europea». E ricordò che già Pio XII, nell'enciclica Fulgens radiatur, lo riconobbe «padre dell'Europa». Era il 1947 e il documento pacelliano, a due anni dalla fine della più disastrosa guerra mai combattuta fra i popoli del Continente, così si esprimeva: «Anche la nostra epoca, agitata e ansiosa per tante sì gravi rovine materiali e morali, per tanti pericoli e disastri, può da lui attendersi i necessari rimedi». E oggi perché non chiederglieli ancora?
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