Dopo di loro il diluvio? Il grande nulla? O un generico "qualsiasi cosa"? Loro, i partiti. Quelli di cui i quotidiani continuano impietosamente a cantare il de profundis, la crisi irreversibile o quanto meno l'imbarazzante impotenza. Quei partiti incapaci di trovare il modo di accordarsi ed eleggere un nuovo presidente. Sentenzia Angelo Panebianco ("Corriere", 2/2): «Quali che siano le smemoratezze dei nostalgici, ci vuole molta ingenuità per credere che i forti partiti di un tempo possano rinascere». Per la spallata definitiva basterà attendere «una crisi (per esempio internazionale) che un sistema debole come il nostro non sarà in grado di fronteggiare e innescherà cambiamenti profondi (...) con la speranza, dopo quel giorno, di avere ancora una democrazia». Gli fa eco Stefano Folli ("Stampa", 2/2, titolo: «Una partitocrazia senza partiti»): «È poco credibile che partiti evanescenti e spesso screditati siano in grado di ricostruire il sistema e addirittura riformarlo». Colpo definitivo da Luca Ricolfi, intervistato da Francesco Boezi ("Giornale", 2/2): «Il duopolio Draghi-Mattarella non è frutto di un colpo di Stato ma del suicidio della politica». Non molto diverso il commento di Gustavo Zagrebelsky ("Repubblica", 1/2): «Non è stata un'elezione ma il fallimento di coloro che avrebbero dovuto rappresentare la nazione». Il guaio è che la politica è stata sopraffatta dal politicantismo: «Se c'è politica, se cioè ci sono programmi, progetti, ideali, perfino ideologie; se cioè c'è qualcosa che va al di là dell'autoreferenzialità e che tiene a bada l'ego personale o di gruppo, allora sì, si può mediare, cercare insieme il meglio tra ciò che è possibile». Perfino Augusto Minzolini ("Giornale", 1/2), nel magnificare le insuperabili strategie di Berlusconi, denuncia «l'inconsistenza delle attuali leadership. A destra come a sinistra (...), mentre è assente del tutto una visione di futuro per l'Italia». Più che diluvio, pare siccità: di idee, progetti, sogni.
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