Quando nell’appena nata Repubblica italiana si discusse di cosa mettere al centro del Tricolore al posto dello stellone dei Savoia (e per fortuna si decise di non sporcare in alcun modo quel bianco) lo scrittore e polemista conservatore Leo Longanesi – una delle più vivaci e spregiudicate teste di quegli anni, che si definiva «conservatore in un Paese in cui non c’è nulla da conservare» o anche, a causa della bassa statura, un «carciofino sott’odio» – propose di metterci la scritta «tengo famiglia». I sociologi americani (di grandissima scuola e di grande moralità) che vennero a studiare il Sud, ma non solo quello,
negli anni cinquanta, parlarono per il modo di funzionamento delle nostre comunità, e per estensione (non dichiarata) riguardo al Paese Italia tutto intero, di «familismo amorale».
Era un male antico, sul quale tanti hanno riflettuto studiando il “carattere degli italiani”, compreso il grande Leopardi e nel Novecento due italiani che ho potuto conoscere, Silvio Guarnieri e Giulio Bollati. Tutti loro, però avevano avuto un precedente più di quattro secoli prima, nel geniale Guicciardini, il quale aveva avanzato la teoria del «particulare», che sta alla base delle scelte politiche e individuali, non solo italiane ma a partire dalla nostra storia, vedendone peraltro sia l’ineluttabilità che una sorta di conseguente positività. Nell’uso corrente di questa teoria, ci si è spinti a vedere nella difesa del «particulare» l’ostinato carattere degli italiani, identificandolo abusivamente col «familismo amorale»: gli interessi della famiglia, del clan, della corporazione, del partito e perfino della mafia sopra e contro quelli della collettività.
Questa la nostra storia pubblica e privata? Se così è, qualcosa è cambiato in peggio negli ultimi tre decenni, quelli dell’immensa mutazione che abbiamo subito e stiamo subendo: la globalizzazione, la finanziarizzazione dell’economia, internet e la comunicazione come droga per tutti i gusti, ma pur sempre ideata e manipolata dall’alto, eccetera. Questa mutazione è stata genialmente analizzata da un altro sociologo americano (pensando agli Usa, sentina di tutti i vizi, e al mondo), Christopher Lasch, nel suo saggio su La cultura del narcisismo.
Si potrebbe oggi affermare, in modo ovviamente superficiale e quasi da battuta, ma meno stupida di quel che può apparire ai sapientoni universitari di un’arte morta come la sociologia, che l’antropologia italica (e non solo, ovviamente: ma siamo in Italia e di Italia parliamo) vede oggi aggiungersi al male antico e tremendo del “particolarismo” quello del “narcisismo”, perdipiù di massa. Non c’è da stare allegri, se si pensa al futuro del nostro Paese e agli aggiornamenti del nostro “carattere”.
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