Dopo settimane di duro lavoro, le poltrone italiane cominciano a dare segnali di cedimento. Tutto per via dei poltroni reclusi in casa. Nonostante la tragica sparizione dello sport in diretta dalla televisione, i poltroni poltriscono assai più che ai vecchi, lontani, remotissimi tempi in cui il coronavirus non imperversava e si stava tanto fuori casa, per dovere o per diletto. E la poltrona, che in alcuni casi giaceva intonsa, più un abbellimento che altro, ha conquistato il centro, e con esso lo stress.
Curioso caso di parola, la poltrona. Intanto, contrariamente a quanto potremmo essere indotti a pensare, è lei a derivare dal poltrone, nel senso di individuo sfaccendato che si attarda in vane sedute mentre il mondo attorno a lui si affanna e produce. E non viceversa. Per la verità l'etimologia è un mistero mai chiarito; quindi tra tante ipotesi, nessuna davvero convincente, scegliamo la più divertente, poiché è saggio, in questi tempi duri da masticare, cogliere al balzo tutto ciò che essendo morbido è motivo di diletto. Il pullítrum è il puledro, cavallino giovane inadatto ancora al lavoro, un perditempo che ama attardarsi nei prati non sapendo che presto, con la maturità e i muscoli, arriverà il giorno in cui dovrà tirare la carretta, e non solo in senso figurato. La radice pull- indica in latino un po' tutte le bestiole giovani, come ad esempio il pollo. Da pullítrum a poltrone il passo è breve ma mica tanto, infatti la spiegazione non convince del tutto. C'è chi propende, in ostinata minoranza, per pollice truncus, come veniva definito chi si mozzava il pollice per non fare il servizio militare: un furbastro scansafatiche. Poltro sarebbe anche un vocabolo di antica origine gallica. Insomma, brancoliamo nel buio, vagando come un puledro pelandrone.
Sia dunque, poltrona, una dolce parolina se accoglie il lavoratore o la lavoratrice stanca, che vi adagia le membra prostrate giusto pochi istanti prima di essere chiamato a qualche incombenza dal coniuge o dai figli. In questo caso la poltrona è oggetto di tenero desiderio e di rimpianto. È altresì parolaccia quando designa una brama quasi sempre insana, per la quale sacrificare princìpi, etica e morale: la poltrona, tanto ambita da tipi umani non sempre raccomandabili, ma da cui pochi si esimono dal farsi raccomandare, significa carica prestigiosa, redditizia e poco faticosa. In genere, un onesto lavoratore a casa sua ha una poltrona per sé, al massimo due affinché anche il coniuge possa goderne, ed entrambi in poltrona si possa leggere un libro, conversare, bere una tisana o guardare l'intera saga del Signore degli anelli "director's cut" o, in queste giornate infinite e pigre, tutte le stagioni del Trono di spade. Chi insegue la poltrona come Gollum l'anello malefico, il suo "tessorro", difficilmente si accontenta di una poltrona sola e tutte quelle che colleziona sono per lui, e gli altri peggio per loro. Va ricordato che il saggio Tolkien di poltrona ne possedeva una, che saggiamente usava per fumare la pipa e far sgorgare dalla fertile mente storie meravigliose e lingue perdute.
Queste poltrone-parolaccia possono determinare le faide più feroci. Una loro versione morbida, a mo' di commedia, è il film Una poltrona per due (1983) di John Landis, con Dan Aykroyd ed Eddie Murphy in gran forma, dove la prestigiosa poltrona è in fondo solo un pretesto che spiegarci, tra l'altro, come possa esser bene perdere tutto per ritrovare se stessi, compresi amici improbabili. Occorre deragliare, talvolta, per imboccare la strada giusta. E questo potrebbe essere uno dei tanti auguri possibili per il dopo-virus.
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