Il problema non è nuovo e colloca su opposti schieramenti i difensori dell'economia e i difensori della società. Insomma: per una nazione sono più importanti la crescita del Prodotto Interno Lordo e lo sviluppo produttivo o il benessere degli individui e la giustizia sociale? Il grande tema politico, nonché sociologico e antropologico, è stato rimesso al centro dell'attenzione da Richard Wilkinson e Kate Pickett con un libro che dice molto fin dal titolo: La misura dell'anima. Perché le disuguaglianze rendono le società più infelici (Feltrinelli). I due autori si segnalano per il fatto di aver studiato storia economica, epidemiologia, antropologia, scienze nutrizionali: non ignorano la realtà economica contemporanea, ma non sono dei tecnici e devoti dello sviluppo economico in sé. Se lo sviluppo accentua le disuguaglianze di una società invece che diminuirle, questa società, raggiunto un certo grado di ricchezza, tende all'infelicità e alla disgregazione. Qualità della vita e percezione di benessere non sono direttamente proporzionali alla misura del Pil. C'è una «misura dell'anima» (salute fisica e mentale, fiducia nel futuro, nel prossimo e nelle istituzioni, istruzione e cultura) fondata soprattutto sull'uso equo e razionale della ricchezza prodotta e non sulla sua quantità assoluta. Il successo materiale può essere accompagnato dall'insuccesso sociale: cosa che si sta verificando da tempo nei cosiddetti paesi sviluppati, un'area del mondo compresa fra Portogallo e Stati Uniti.
Dato che «i paesi ricchi vedono esaurirsi i benefici reali della crescita economica» è arrivato il momento di occuparsi anche dei limiti ambientali contro cui si scontra un'economia che in sé non prevede limiti. Dicono i due studiosi: «Siamo la prima generazione a dover trovare nuove soluzioni al problema di come migliorare la vera qualità della vita umana». Bene. Ora cerchiamo di capire qual è la misura dell'anima per il nostro futuro.
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