Diciassette morti, quasi novanta feriti, mandanti accertati, ma nessun colpevole in carcere. Cinquant'anni dopo, doverosamente, giornali e tv ricordano l'attentato alla Banca nazionale dell'agricoltura di piazza Fontana a Milano. Erano le 16,37 del 12 dicembre 1969 quando la madre di tutte le stragi, accompagnata da altri attentati a Roma, inaugurava uno dei periodi più bui della nostra storia recente. È in questi tragici anniversari che i media riescono ancora a fare il loro dovere. Per quanto riguarda la televisione, sono numerosi i servizi, gli speciali e i talk che si sono occupati o si stanno occupando di quanto avvenuto con l'esplosione di quei sette chili di tritolo piazzati sotto al grande tavolo del salone di un istituto di credito a due passi da piazza del Duomo, quasi sotto la Madonnina che rappresenta l'anima e il cuore di Milano. Tra i tanti programmi (segnalando che stasera su Rai 1 va in onda anche il film per la tv Io ricordo) abbiamo scelto come esempio il documentario La strage di Piazza Fontana, andato in onda ieri alle 21,50 su History e su Crime+Investigation in contemporanea, tra l'altro, con una puntata di Atlantide su La 7 dedicata allo stesso tema. Il merito del lavoro di History, oltre ad aver raccolto le commoventi testimonianze dei figli delle vittime, sta nell'aver ricostruito con precisione le varie fasi delle indagine e dei processi, ma soprattutto nell'aver dimostrato come tante cose si sapessero e come si poteva arrivare ben prima alla verità, ma come questo non sia stato possibile per una serie incredibile di depistaggi. Le prove sono a disposizione presso l'Archivio di Stato di Perugia, che conserva le carte dei casi più controversi della storia italiana. C'è voluta, però, la pazienza e la volontà di andare fino in fondo da parte di un giornalista, Davide Vecchi, che ha letto migliaia di documenti trovando conferma alle ipotesi sui depistaggi e sul coinvolgimento di parte dei servizi segreti collusi con l'estremismo di destra da cui provengono i responsabili certi, ma non punibili perché assolti in via definitiva nel primo processo. È per questo che i parenti delle vittime affermano di avere avuto la verità storica, ma non la giustizia.
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