Un'amica, suora domenicana "della beata Imelda", mi segnala, sul sito della sua Congregazione, una bellissima "lettera dalle missioni" ( bit.ly/3lyNS9T ). È stata pubblicata meno di un mese fa; la firma Lucia Baw Mya, una consorella che si trova in Myanmar e precisamente a Loikaw, Stato di Kayah. Partendo dal colpo di stato del febbraio 2021, descrive come, in conseguenza della guerra civile, il centro di formazione giovanile in cui vive è diventato un campo profughi e quanto l'assistenza materiale e spirituale alle persone accolte e a quelle che si sono rifugiate nella giungla assorba le suore, per le quali «è più facile ottenere i permessi per spostarsi». Ma c'è un passaggio che merita una riflessione in più. «Non solo gli effetti devastanti della guerra civile – scrive suor Lucia – dobbiamo fare i conti anche con il numero crescente di casi di Covid-19. La pandemia, che è arrivata anche da noi, limita i nostri movimenti e le nostre attività. Il centro giovanile non è più soltanto un campo provvisorio per sfollati interni, ma anche un centro di quarantena, e dobbiamo osservare molte precauzioni per preservare la nostra salute e quella degli altri».
Non posso fare a meno di confrontare questa semplice presa d'atto, da parte di una religiosa, di un oggettivo problema sanitario e di ciò che esso richiede a ciascuna comunità – anche se già duramente provata – con certi racconti di asserita "controinformazione" sociosanitaria che circolano in Rete, anche qui in Italia. Convintamente rilanciati e fatti propri, purtroppo, anche da una frazione della blogosfera ecclesiale, con ridondanza di espressioni, come "psicopandemia" e "inoculazione di siero genico" (al posto di "vaccinazione"), che pretendono di negare la realtà che ci circonda. Quella realtà che invece fa dire a suor Lucia: «La vita è difficile, ma è importante continuare a vivere giorno per giorno, rimanendo nella grazia di Dio e ringraziandolo per tutto ciò che abbiamo».
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