Caro Avvenire, nell’Italia di fine 2024 trionfano il rap e il trap, generi da tempo assai diffusi e apprezzati da crescenti masse di giovanissimi, giovani e non più giovani, magnetizzati da messaggi minimi, squallidi e linguisticamente basici, agiti da personaggi bravissimi e furbissimi nel guadagnare montagne di soldi. Mi sia permesso di ricordare che “parlare o cantare attraverso la parola” non è prerogativa degli idolatrati, multimilionari rapper/trapper attuali, ma che ci furono altri artisti capaci di “parlare” cantando in maniera unica e inarrivabile. Anche se forse tutto ciò suona fuori tempo.
Simonetta Chierici
Cara signora Chierici, il caso più recente che ha visto protagonisti i trapper è stato quello di Tony Effe, prima scritturato dall’Amministrazione di Roma per il concerto dell’ultimo dell’anno e poi escluso a motivo dei suoi testi violenti e misogini. Mi pare che in questo episodio sia racchiuso il senso del suo sfogo. Gli esponenti dei due generi musicali più di successo conquistano il pubblico, ma lasciano perlomeno perplessi per le loro qualità artistiche (con qualche eccezione) e, soprattutto, per i loro testi. Tuttavia, la notorietà oggi vale più di tutto, così vengono inseguiti anche dalla cultura popolare di massa, si veda l’ampia pattuglia di rapper e trapper che parteciperà al prossimo Festival di Sanremo.
Dobbiamo tuttavia chiederci perché piacciono. Come sempre, non c’è una risposta univoca. Almeno inizialmente, il rap soprattutto (nato negli anni ’70 a New York) era espressione di subculture giovanili in cerca d’identità in un contesto di disagio economico e sociale. La versione italiana di rap e trap (quest’ultimo evoluzione del primo) racconta spesso di povertà, marginalizzazione e aspirazioni di riscatto. Inoltre, dà voce a realtà periferiche, con una narrazione alternativa e non raramente oppositiva.
I messaggi aggressivi o provocatori sono interpretati come un modo per esprimere distanza da società e istituzioni che non darebbero spazio a ragazzi (spesso di origine straniera) non integrati né omologati. In questo modo, si alimenta anche una mitizzazione dei cantanti, basata sull’“autenticità” presunta del performer, che racconta esperienze vere e crude, atteggiandosi a “sopravvissuto” in contesti difficili, diventando un modello per chi sogna un miglioramento della propria condizione.
Questa dimensione “espressiva”, che ne giustificherebbe gli eccessi, può essere anche letta in modo molto più pragmatico: la provocazione, la sessualizzazione e l’ostentazione dei consumi di lusso, l’enfasi su droga e denaro (tipiche del trap) attirano attenzione, suscitano polemiche e aumentano le vendite, in linea con le strategie dell’industria musicale. In questo senso, le piattaforme digitali, dove contenuti controversi o espliciti tendono a diventare virali, costituiscono un volano efficacissimo.
La trap, secondo alcuni sociologi, rappresenta addirittura valori postmoderni come la celebrazione del consumismo sfrenato e il disimpegno politico, nell’orizzonte del nichilismo culturale contemporaneo. Troppa nobiltà, a mio avviso, per generi che mettono sovente in circolo rabbia e messaggi diseducativi (sia detto per inciso, i trapper Baby Gang e Shiva hanno continuato a essere osannati campioni di vendita anche dopo che sono finiti in cella per motivi diversi negli scorsi mesi). Forse dovremmo investire un po’ di più sulla musica di qualità e sul suo insegnamento, riscoprendo il valore educativo e culturale che essa può offrire. Il maestro Riccardo Muti ha detto in un’intervista che la Corea del Sud ha costituito negli ultimi anni più orchestre sinfoniche dell’Italia, un dato di per sé abbastanza eloquente. Che meriterebbe pure una stringa da parte di un rapper autoironico.
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