Le prime buone notizie, timidamente, arrivano: fra tutte il numero costante dei posti che si liberano nelle terapie intensive. Il virus viene identificato prima, controllato meglio dalle terapie, forse è anche diventato più "buono". Ci dovrebbero essere, dopo tutto questo dolore, occhi che brillano e desiderio di andare incontro a quella luce laggiù in fondo al tunnel, voglia di farsi trovare pronti dopo aver pagato un tributo inimmaginabile in termini di vite umane e di economia. Soprattutto dovrebbe percepirsi, alla vista di quella piccola luce laggiù, uno smisurato senso di comunità, di voglia di ricominciare sì, ma tutti insieme. Era questo che pensavamo nei giorni degli inni cantati dal balcone e dell'hashtag #andràtuttobene. Invece, proprio adesso, la sensazione è di un generalizzato tutti contro tutti. Tutti contro l'Europa e l'Europa (pezzi d'Europa) contro se stessa, come in una malattia autoimmune, in cui il sistema centrale attacca i suoi stessi organi. Tutti contro tutti nel discutere della App di contact tracing, della Fase 2, del sostegno economico alle imprese o ai cittadini, del giorno di fine lockdown di regioni che hanno situazioni clamorosamente diverse, ma che vogliono condizioni uguali. Sembra quasi che il nostro Paese stia andando in mille pezzi, in un clima di rabbia crescente.
L'aggressività del virus si attenua, ma quella degli umani sta raggiungendo il livello di guardia. A dividere, argomento già di sua natura divisivo, c'è anche il tema della ripartenza del campionato di serie A. «Non voglio essere il becchino del calcio italiano» ha detto, con infelicissima metafora, il presidente della Federazione Gabriele Gravina. Poi ci sono gli altri sport: «Se il calcio riparte, perché noi no?» domanda per nulla illogica. Insomma, come direbbe l'Al Pacino di "Ogni maledetta domenica", stiamo per essere annientati individualmente, perché di «risorgere come collettivo» non c'è proprio traccia. Deve essere la nostra natura, come nella favola della rana e dello scorpione di Esopo. Se dovessi valutare oggi, direi che non ne usciremo cambiati, anzi torneremo a essere come prima, ma resi più cattivi dalla fame, come quei topi di New York che privati dei resti di cibo dei ristoranti chiusi per lockdown stanno diventando cannibali.
Mentre sono qui, in attesa dei motivi di litigio e divisione di domani, mi viene un'idea che si fonda su tre premesse: 1. lo sport è strumento privilegiato di inclusione 2. il cinquanta per cento del volontariato del nostro Paese si occupa di sport 3. Sono centinaia di migliaia i ragazzi (dall'oratorio ai professionisti) e gli allenatori/dirigenti che si dovevano destreggiare fra scuola/lavoro/allenamenti e che oggi non possono andare a scuola, né al lavoro, né ad allenamento. Se queste premesse sono vere (e lo sono) perché non organizzare una gigantesca rete di solidarietà sportiva? Con un'azione non bottom-up (sono tante le società che si sono organizzate per azioni solidali), ma coordinata dal Coni o da Sport e Salute o dal Ministero dello Sport. Perché non impiegare queste migliaia di persone, ben allenate al gioco di squadra, in un servizio civile a tempo? Per fare cose molto concrete come portare la spesa o i medicinali a casa per gli anziani, la consegna di mascherine, la ricerca di devices per permettere ai tanti studenti sprovvisti di seguire le lezioni on-line. Sarebbe un modo per allenare questo Paese al gioco di squadra e le società sportive, oggi al palo, sono diffuse in una maniera capillare su tutto il territorio del nostro Paese. Sarebbe una bella azione politica nell'ultimo modo in cui questa parola esprime ancora bellezza: prendersi cura della polis, il pezzo di mondo in cui siamo chiamati a vivere.
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