E se tornassimo a quella prima definizione originaria? Se l'Europa, da "Unione" che è diventata con il Trattato di Maastricht del 1992, provasse in questo 2018 appena iniziato a chiamarsi e a considerarsi di nuovo "Comunità" come al principio? Può sembrare un'idea banale, o magari un esercizio lessicale futile, a metà strada fra il nostalgico e l'utopico. Eppure, se le parole hanno un loro spessore culturale che va oltre il contenuto letterale, per i ventisette Paesi membri della "grande impresa" iniziata 61 anni fa, anche un tuffo nelle proprie radici semantiche potrebbe rivelarsi fecondo.
Ha detto una volta Bernard-Henri Lévy che «l'Europa non è un luogo, ma un'idea». E non era forse l'idea di base dei Padri fondatori quella di mettere "in comune" risorse, energie e talenti nazionali, per poi costruire, gradualmente e con pazienza, un'unità che andasse oltre gli stessi interessi economici dai quali pure si decise di partire? Già nel preambolo del Trattato istitutivo della Ceca (la Comunità europea del carbone e dell'acciaio), firmato a Parigi il 18 aprile 1951 da Germania Ovest, Francia, Italia e i tre Stati del Benelux, si dichiarava la volontà di «sostituire alle rivalità secolari una fusione dei loro interessi», considerando la nuova istituzione «la prima assise di una più vasta e più profonda comunità fra popoli».
Se poi si va a scavare nel lavorio politico e diplomatico che precedette il varo del primo embrione dell'odierna Unione, colpisce il realismo e al tempo stesso la lungimiranza di chi concepì il progetto: in primo luogo l'allora ministro degli Esteri francese Robert Schuman con, al suo fianco, Jean Monnet. Fu quest'ultimo a comprendere che, a neppure cinque anni dalla fine della guerra, non si poteva immaginare subito un unico grande edificio istituzionale. Bisognava invece limitare gli obiettivi a settori specifici, ma a una rivoluzionaria condizione: dare vita a una vera autorità sovranazionale non più soggetta alle diverse capitali.
Si giunse così al fatidico 9 maggio 1950, con la "dichiarazione" del governo francese concordata in segreto, poche ore prima, col cancelliere tedesco Konrad Adenauer. Partì da lì il lavorio che portò un anno dopo alla messa in comune tra i "Sei" dei mercati del carbone e dell'acciaio, fino ad allora tra le maggiori cause dei conflitti intraeuropei. «Non più parole vane, ma un atto ardito e costruttivo», disse il lorenese Schuman davanti alla stampa convocata al Quai d'Orsay. Una cessione di sovranità senza precedenti, compiuta «in un ambito ristretto ma decisivo», aggiungerà poi Monnet, per il quale si doveva «tendere alla fusione degli interessi dei popoli europei e non soltanto al loro equilibrio».
Non poteva andare diversamente. Una "comunità" tra diversi nasce se ci sono intenti, vantaggi e obiettivi condivisi. Non in una pura logica utilitarista, piuttosto in una strategia di persuasione e mirando ad un allargamento graduale, come confermò, appena sei anni dopo, la nascita della Comunità economica europea (la Cee) e di quella dell'energia atomica (l'Euratom). Ci si può chiedere se oggi la perdita di entusiasmo verso il sogno di un Continente davvero coeso e solidale non sia anche conseguenza di forzature culturali o di vere e proprie fughe in avanti non ben ponderate.
L'uscita della Gran Bretagna in questo senso è un campanello d'allarme non solo economico e geopolitico. I piani di rilancio e ulteriore integrazione dell'Unione vanno dunque ponderati attentamente. Soprattutto per le ricadute effettive sui cittadini dei "27". In vista delle elezioni europee dell'anno prossimo, il presidente francese Macron ha lanciato l'idea di "convenzioni democratiche" in tutti i Paesi membri, per coinvolgere al meglio l'opinione pubblica. L'idea è utile, può aiutare a sentire il polso vero della gente, ma va attuata bene. Per esempio, come avvertiva di recente Le Monde, garantendo effettiva rappresentatività e coinvolgimenti più ampi possibili. Solo così può rinascere un vero spirito comunitario.
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