«O sonno placidissimo, ormai vieni/ All'affannato cor che ti disia:/ Serra il perenne fonte a' pianti mia,/ O dolce oblivion, che tanto peni». Sono versi di Lorenzo de' Medici, nobile, filosofo, poeta, talentuosissimo, leggendario signore della Firenze umanista che rappresenta uno dei momenti più alti della civiltà, fenomeno italiano irripetibile e irripetuto. I versi, pur nella distanza storica della lingua, sono chiarissimi: vieni, finalmente, dolce sonno, vieni al cuore affannato che ti desidera: chiudi la fonte da cui sorgono i miei pianti, vieni, con fatica, come mio dolce oblio. Dimenticare il travaglio del giorno, le lotte politiche, le cure dello Stato, i tormenti amorosi, il fuoco della vita accesa - possiamo immaginare quanto accesa - di una Firenze rinascimentale. L'uomo, che deve vivere agonisticamente, infuocatamente la sua giornata, ha bisogno dell'altra parte della realtà, quella in cui tutto si placa, si addormenta, e l'oblio scende sui travagli e le pene del giorno. Il sonno, nell'instancabile, furente, vitalissimo Lorenzo come in ognuno di noi, rappresenta l'altra parte necessaria dell'anima, quella in cui tutto per incanto scompare, si addormenta, svanisce. Non per morire, ma per rinascere, al mattino, rigenerati dall'incanto che porta oblio e lava la mente.
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