Va di moda tra le scienze universitarie la politologia, una delle ultime accolte nell'accademia, perché inventando nuove discipline si creano nuovi corsi e nuove cattedre, nuove specialità e nuovi posti di lavoro. Figlia in verità del giornalismo politico piuttosto che della sociologia, ha prodotto specialisti di gran nome, come quel Michael Walzer il cui Azione politica (Luiss) ha l'ambizioso sottotitolo di “Guida pratica per il cambiamento”. Venne scritto al tempo della guerra del Vietnam, con lo scopo di ammaestrare una generazione di militanti, il cosiddetto “movement”, ed è ristampato in un'epoca in cui di movimento ce n'è in realtà poco o niente. Recentemente si è commemorata a Perugia la prima marcia per la pace Perugia-Assisi pensata e voluta da Aldo Capitini in anni di tensione atomica, di paura di una Terza guerra mondiale forse e di equilibrio del terrore. Oggi, una nuova marcia dovrebbe mettere in primo piano l'ecologia, le battaglie per la natura, ma almeno per ora poco si muove, soprattutto in Italia. Supplisce molto male la politologia, che pretende ammaestrare i movimenti a non esagerare di qua o di là, a tener conto di questo e di quello, e il libro di Walzer, che pure dirige “Dissent”, la più significativa rivista radical americana, è di fatto un noioso distinguo, un non-fate-questo e attenti-a-quello, di banale superfluità. Walzer è troppo casuistico e retorico per essere davvero utile a qualcuno e che non sembra affatto un figlio dei grandi sociologi americani oggi pochissimo letti, quelli che ci hanno aperto le idee sulla realtà statunitense e hanno ridimensionato gli entusiasmi eccessivi dei Tocqueville e delle Arendt su un Paese il cui analista contemporaneo più intelligente è forse lo Scorsese del suo ultimo film The irishman. Altro che il regno della democrazia! Un Paese dominato dalle banche e dalle mafie, come sta forse diventando tutto l'Occidente per imitazione e cooptazione. Dimenticati e ancora utilissimi, i veri sociologi americani non sono certo i politologi così accomodanti alla Walzer, ma ancora utili a capire qualcosa di quell'immenso Paese: la Scuola di Chicago, i coniugi Lynd della Piccola città, David Riesman di La folla solitaria, C. Writght Mills di Colletti bianchi e L'élite del potere e il fondamentale L'immaginazione sociologica, e Goffman, e Gouldner, eccetera. Viva i sociologi, anche se oggi così mal rappresentati nelle accademie, e abbasso i politologi, predicatori che ci spiegano quel che sappiamo meglio di loro, da cosa nascono e come si affermano i politici che ci governano e, anzi, chi li governa. E se qualcuno cerca lezioni di democrazia, rilegga il finale di Furore di Steinbeck e riveda il finale del film di Ford. Lì, sì, la dichiarazione «We, the people» ha un senso. Si impara di più dalle lettere di Sacco e Vanzetti e dagli scritti di Malcolm X, Martin Luther King o James Baldwin che dalle noiose prediche e dai noiosi distinguo del benintenzionato Walzer, e dalle manfrine dei prof. di politologia.
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