Penso, ripenso, sfoglio gli album Panini anni '80 e un cattivo pensiero mi assale in una notte di dicembre: «La mia generazione ha perso». È anche il titolo dell'ultimo album pubblicato in vita (2001) da Giorgio Gaber che due anni dopo ci salutava. Un cancro si portò via il “Signor G”, stesso male ci ha privati di quel gran signore che è stato Paolo Rossi. Ce lo ricorderemo, amaramente purtroppo, questo 2020... Il Covid ha disseminato terrore, angoscia, solitudine e tante lapidi. Solo nel Lanerossi Vicenza che fu di Rossi, per il virus assassino sono deceduti il portiere Ernesto Galli e il mediano Innocenzo Donina. Mali oscuri hanno spento per sempre l'unico vero “poeta del gol” Ezio Vendrame e il “forte” di Lodi Mario Maraschi. E infine lui, il “beato” Paolo, che come ha scritto Antonio Giuliano su Avvenire ha vissuto e pensato alla Gino Bartali: «Il bene si fa, ma non si dice». Paolo, piccolo grande eroe esemplare di un calcio che non c'è più, se non nella memoria di noi ragazzi di ieri, che, uno dietro l'altro, stiamo dicendo addio ai nostri idoli. Addio ai nostri ultimi punti di riferimento ideali, in un mondo senza più centri di gravità permanenti. Una fine improvvisa quella di Rossi, spiazzante come una sua finta, ma d'impatto emotivo Mundial, come quella di Diego Armando Maradona. Due destini che si sono incrociati a Spagna '82 quando tutti aspettavano l'esplosione del fenomeno argentino e invece il protagonista assoluto fu lui, l'azzurro Pablito. Nomignolo che gli appioppò – durante una trasferta spagnola – Giorgio Lago (1937-2005), elegante penna del Gazzettino, che merita la lettura del suo Il facchino del nordest. Trent'anni di giornalismo critico (Marsilio). «Era un grande amico Giorgio Lago», disse Paolo Rossi nella nostra ultima chiacchierata. Gli piaceva, perché Lago parlava di sport con la stessa intensità con cui seppe dialogare – in dialetto veneto – con il poeta Zanzotto e padre Turoldo. Commuovono certi nomi, troppo poco letti e ricordati. Piango, davanti alla tv, al funerale di Pablito e non mi sento un «buffone», ma come canta Gaber, forse, «faccio parte di una razza in estinzione».
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