venerdì 31 gennaio 2014
   1914-2014: un secolo dall’inizio del massacro di uomini giovani e perfino giovanissimi (l’ultima leva, non solo in Italia, fu quella dei “ragazzi del ’99”). Una delle dieci milioni di vittime fu mio nonno Adamo, contadino e analfabeta, scomparso sul Grappa. I feriti furono il doppio, venti milioni, e sono cifre spaventose, terribili. Rileggo con commozione e rabbia gli studi di Mario Isnenghi, lo storico che ci ha spiegato meglio l’epoca e la sua tragedia e ha puntato il dito sulle responsabilità immani dei politici e dei ricchi del tempo, sulle responsabilità dell’interventismo e la viltà e l’oscena spregiudicatezza dei re e dei ministri, dei generali e dei colonnelli dell’una e dell’altra parte. Ma rileggo con ancor maggiore commozione e rabbia le lettere che Giovanna Procacci scoprì negli archivi della censura e commentò in un libro importante, edito da Bollati Boringhieri. I giovani di allora, mandati al macello, cos’hanno in comune con i loro pronipoti di oggi? Praticamente nulla, davvero nulla. Almeno per ora e almeno in Italia. Il mondo cambia e va avanti, di speranza in sconfitta e di massacro in massacro, e la Storia è sempre quella, ma i nostri giovani e i loro padri hanno goduto in Italia di settant’anni di pace, che sono davvero tanti. Ma chi vorrei ora ricordare è un giovane inglese, Wilfred Owen, morto sul fronte francese a venticinque anni, che ha lasciato un corpo di bellissime, strazianti poesie che Einaudi farebbe bene a ristampare (le tradusse Sergio Rufini nel 1985: Poesie di guerra). Molti poeti hanno sofferto il ’14-’18 sul fronte e ne hanno tratto bellissimi versi, da Apollinaire a Trakl e in Italia da Rebora a Ungaretti, ma io sono affezionato anzitutto a quelle di Owen, dolenti e brucianti, tra le quali fu un tempo celebre Dulce et decorum est. Essa si rivolge anche a noi quando parla dei morti per gas:«Se potessi sentire il sangue, a ogni sobbalzo, / fuoriuscire gorgogliante dai polmoni guasti di bava, / osceni come il cancro, amari come il rigurgito / di disgustose, incurabili piaghe su lingue innocenti – / amico mio, non ripeteresti con tanto compiaciuto fervore / a fanciulli ansiosi di farsi raccontare gesta disperate, / la vecchia Menzogna: Dulce et decorum est / pro patria mori».
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