Ci sono piccole specie minoritarie, in politica, che si riproducono generazione dopo generazione incuranti delle lezioni della storia e della ricerca di nuovi modi per affrontarla. A volte la loro ostinazione - per esempio, a sinistra, quella dei bordighisti, che continuano a pubblicare un loro giornale a diffonderlo per le strade delle grandi città (“bordighisti”: fedeli al pensiero di Amadeo Bordiga, uno dei fondatori del Pci poi velocemente emarginato) - provoca simpatia, proprio per la loro fedeltà a una speranza di rivoluzione, anche se quella a cui io penso è molto diversa dalla loro. Confesso di provare perfino una certa simpatia, a volte, per dei giovani di destra che, in mezzo al generale conformismo della loro generazione, tuttavia in qualche modo cercano, si agitano. Quelli che non predicano e praticano la violenza, intendo. A volte, per rimanere nel campo della sinistra che si diceva un tempo “rivoluzionaria”, mi succede di provare invece diffidenza per gruppi e posizioni che si richiamano (anche se non sempre lo dicono pubblicamente, e vedremo perché) al magistero di Trotskij, anche se, a ben vedere, hanno poco da spartirci. Il vituperato, il “rinnegato” Trotskij di cui parlarono gli stalinisti e i togliattiani, fu anche un grande capo militare senza il quale i “rossi” non avrebbero probabilmente trionfato sui “bianchi” e fu un grande intellettuale che sapeva individuare e apprezzare i veri talenti del tempo, perfino quello del destro Céline per non parlare del giovanissimo e oggi dimenticatissimo Lev Lunc che, non fosse morto giovanissimo, sarebbe diventato un Grande. Ricordo quando, grazie a Raniero Panzieri, l'Einaudi osò stampare nei primi anni Sessanta una scelta di scritti del grande rivoluzionario, e l'animata presentazione che se ne fece alla libreria Einaudi di Roma condotta da Panzieri e da Livio Maitan. Fu la prima volta che L'Unità parlò di Trotskij senza aggiungere al suo nome gli insulti di rito. Non credo fosse una convinzione di Trotskij ma lo fu certamente di chi si richiamava alle sue idee quella dell' “entrismo”, e lo fu certamente di Maitan e, per esempio, di alcuni compagni torinesi, che avevano anzi una loro sezione, la 39, e stavano nel Pci con l'idea di spingerlo più sinistra, lavorando dal suo interno (di qui il termine di “entrismo”). Li ho conosciuti e frequentati e apprezzati. Bene, c'era una logica seria in tutto questo, mentre non riesco a vederla in certi giovani intellettuali di oggi, tra i quali non pochi si richiamano a Trotskij e producono piccole e anche belle case editrici e riviste di successo tra molti che ambiscono a stare al passo con queste ottuse stagioni e che si accontentano delle belle parole “rivoluzionarie”. Il loro “entrismo” non è più dentro le organizzazioni di una sinistra (che peraltro non ci sono più o non fanno molto “di sinistra”) ma dentro un sistema che Trotskij avrebbe definito senza mezzi termini borghese e capitalista. Faranno carriera, dentro quel sistema? Qualcuno sì, e quest'entrismo, che meriterebbe oggi altri nomi, sarà stato il suo modo di farsi avanti ed è, per il momento, quello di un successo che non dà fastidio a nessuno e che piace a molti.
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