mercoledì 26 ottobre 2016
Eugenio d'Ors (1882-1954) è un grande intellettuale che, dalla Spagna al mondo, ha animato il dibattito culturale della prima metà del secolo scorso. Aragno editore rilancia ora Oceanografia del tedio (pp. 144, euro 15), a cura di Alessandra Ruffino che rilegge la traduzione di Oreste Macrì (1943) collazionandola con quella di Dino Campini (1945).
L'originale catalano è del 1918, la versione castigliana, curata dallo stesso d'Ors, è del 1921. Al grande Luciano Anceschi e al non meno grande Macrì si deve la fortuna italiana di d'Ors. Anceschi considerava l'Oceanografia il capolavoro di d'Ors; Azorín l'affiancava alla Fedra di Racine, Antonio Machado ha dedicato a Xenius (pseudonimo di d'Ors) un'encomiastica poesia.
Personalmente, ritengo che se d'Ors avesse scritto soltanto l'Oceanografia, oggi sarebbe completamente dimenticato. Ruffino intitola «Emozioni geometriche» le sue 46 pagine di introduzione, ma di geometrico c'è ben poco, benché d'Ors aspirasse alle matematiche.
Prendiamo l'affermazione "metafisica" centrale: «Io non penso. Dunque io esisto», scrive d'Ors, e Ruffino ci ragiona su: «Non piani cartesiani, per lui, ma un dualismo arbitrario (perché "la ragione in sé stessa è arbitraria"). L'universo, per lui, non è una macchina determinata dalla categoria della causalità ma una sintassi retta dal principio di concordanza». Causalità abolita dalla sintassi? In realtà (metafisica) l'anti-cogito di d'Ors è una sciocchezza, perché solo pensando si può dire «Io non penso».
Del resto egli stesso ne è consapevole, perché la novella oceanografica parte da una prescrizione medica: il Dottore amico, infatti, prescrive per l'esaurimento dell'Autore come «unica medicina per la salute, il tedio. Il tedio alla lettera. Nei limiti del possibile, né un movimento, né un pensiero». E l'Autore, docilmente, passa un mezzo pomeriggio in un parco sulla chaise-longue a guardare il farsi e lo sfarsi delle nubi (lo dico con parole di Sergio Solmi), a sbirciare una vicina di sdraio che lascia cadere un libro giallo, ad assaporare le gocce di un incipiente temporale.
E alla fine: «Dottore conoscitore di esaurimenti: per questa volta ti sei sbagliato nella prescrizione! C'è chi ha la fiamma, c'è chi non ha la fiamma. Dottore, impara questo per sempre: chi ha la fiamma deve ardere». Dunque l'Autore – che non ha mai smesso di pensare, e l'Oceanografia lo dimostra – si ritrova felice sui marciapiedi bagnati di Barcellona.
La scrittura di Ruffino ha questa allure: «Con la sua sintassi di unità minime addensata in nuclei compendiosi e simile a una glittica concettista, la prosa antiproustiana di d'Ors è tuttaltro che facile». Forse non tutti ricordano che la glittica è l'arte di intagliare i cammei e che il concettismo è teoria e tecnica letteraria seicentesca che predilige la raffinatezza dei "concetti", cioè di immagini, metafore, analogie ricercate e stravaganti, lambiccate; ma anche chi lo ricorda (o ha consultato un vocabolario) poco si raccapezza nella «sintassi di unità minime addensata in nuclei compendiosi» (se la sintassi è addensata, i nuclei saranno certamente compendiosi; se fossero analitici, che nuclei sarebbero?).
Ruffino avverte in nota di aver emendato in «multiforme» il «mutiforme» di Macrì (ma era un banale refuso, diamine!) e per parte sua scrive «tuttaltro» anziché «tutt'altro» (la Grammatica Treccani assicura: «La forma tuttaltro, risultato di una univerbazione, è oggi poco diffusa e legata soprattutto a usi scarsamente sorvegliati»). Insomma, questa Oceanografia resta troppo legata al tempo in cui fu pensata e scritta, come una bottiglia di gran pregio conservata per decenni, che quando poi il nonno la stappa per la laurea del quarto nipote sa d'aceto malandato.
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