Interrogo i miei robot e vedo che da quando, intervistato da don Marco Pozza per Tv2000, Papa Francesco ha sostenuto l'opportunità di scostare dal latino il «non ci indurre in tentazione» del Padre Nostro, molti in Rete hanno portato le loro argomentazioni, fermo restando che il corrispondente Vangelo che leggiamo a Messa è già cambiato: «non abbandonarci alla tentazione» è la versione italiana ufficiale (da dieci anni) di Matteo 6,13 e di Luca 11,4. Per amore dei numeri, dirò che gli interventi che ho potuto leggere sono almeno una dozzina e che tra di essi spicca, fatta propria da Aldo Maria Valli sul suo blog ( tinyurl.com/y7ht9mpq ), la parola autorevole del cardinal Carlo Maria Martini. Per amore del liceo classico aggiungerò che molti dei contributi presuppongono o esibiscono una familiarità con il greco e con il latino che credo sia oggi rara non solo tra il popolo di Dio (non è una novità), ma anche tra il clero.
Anche se il tema si presta benissimo a schierarsi – al netto di chi critica il Papa per tutto ciò che fa e che non fa – tra conservatori e novatori, moderni e antimoderni, tradizionalisti e progressisti, sarebbe riduttivo classificare queste argomentazioni semplicemente tra il "sì, vorrei che la formulazione della preghiera cambiasse" e il "no, non vorrei che cambiasse". Mi sembra piuttosto di cogliere che, tra le invocazioni con le quali Gesù ci ha insegnato a rivolgerci al Padre, questa relativa alla tentazione sia avvertita, e non solo da noi uomini e donne di oggi, profondamente inquietante, comunque la formuliamo. Come dice Robert Cheaib sul suo blog ( tinyurl.com/y7yhyr99 ), «il cuore dell'uomo si rivela come campo di battaglia dove si confrontano e si affrontano il bene e il male, Dio e il maligno». Lo stesso Francesco vi è appena ritornato sopra: per l'Immacolata, ha chiesto per tutti noi l'aiuto di Maria «specialmente nella prova e nella tentazione».
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