giovedì 6 ottobre 2016
Meraviglia sempre sperata e sempre inattesa. Giorni fa sono stato in un luogo che definire bar è decisamente riduttivo. Lo definirei piuttosto una curiosa macchina del tempo che al posto della quantistica utilizza vermouth, gin, vodka, aromi, bizzarri strumenti che sembrano venire dallo studio di un alchimista medievale. E una dedizione, un entusiasmo e amore totali. Il barman, maestro di cerimonie, non faceva cocktail, non miscelava ingredienti. Ricreava l'ologramma di un'epoca con i suoi testimoni e la sua cultura, con i suoi odori e le sue suggestioni, in ogni singolo gesto che avrebbe portato al cocktail, simbolo sintetico di una immersione spazio temporale, delocazione mentale ma anche fisica attraverso il gesto, il gusto e la vista. Al principio ho reagito con una certa resistenza a tanta intensità in un contesto apparentemente dedicato al superfluo. La passione genuina è sempre un po' invadente. Ed è giusto che sia così: perché in qualche modo ti interroga, ti mette in discussione, anche a chi, come me, ha fatto dell'intensità la cifra della sua vita. E lo fa in relazione non all'oggetto della passione, quanto alla densità della forza con cui è vissuta.I gesti di quel barman erano una liturgia. Una liturgia laica certamente, ma entusiasta, contagiosa, immersiva, viva. In un modo tutto suo mi ha ricordato che liturgia è servizio: servizio alla vita.E questo non significa spettacolo di intrattenimento a cui molti si affidano. Non sta lì la vera forza.Ho realizzato che qualunque liturgia degna di questo nome non è al servizio di se stessa. La liturgia non serve la liturgia. La liturgia è come un ponte che si tende con vita verso la vita, e si propone all'altro con la stessa forza di ciò verso cui invita. Invece a volte la liturgia diventa autocelebrativa, autoconfermativa, in una graduale e fatale mutazione verso l'amministrazione.I gesti di quel barman, in un luogo improbabile, mi hanno ricordato che il fulcro della liturgia è la gioia, oggi molto spesso assente in tanti altri luoghi di liturgie “alte”, religiose o laiche che siano, fatto salvo il valore sacramentale o istituzionale. Non servono funzionari, neanche dello spirito. Servono profeti, visionari, poeti, che come motore primo dell'essere abbiano l'energia, la gioia, l'entusiasmo di una intuizione, di un incontro. La liturgia nel suo senso esteso non è tecnica. Come l'arte, si serve della tecnica, cioè di una prassi di gesti, ma al servizio di una gioia, di una energia, di una visione. Se la gioia non c'è la prassi è inutile, si avvita su se stessa in una teoria di gesti vuoti. Quanta tecnica nei gesti di quel barman: è difficile persino ricordarmelo. Ma mai la complessità ha preso il ruolo di protagonista rispetto all'autentico amore per ogni singolo atto e al tangibile entusiasmo contagioso che lo caratterizzava.Quell'entusiasmo, e solo quell'entusiasmo, è in grado di superare la barriera dell'altro, di generare una apertura a una autentica relazione, se è vero che un barman in una sera qualunque può trasmettermi il ricordo di una dimensione potente di liturgia. Ma lo si trasmette solo se lo si vive e non si ha paura dell'onda che crea, e della perplessità o rifiuto che a volte può generare. La liturgia si nutre di una gioiosa incoscienza che permette il totale affido. Non c'è nulla di più contagioso della vita vera, come non c'è nulla di più repellente della avvertita falsità delle parole, anche le piu profonde che si possano dire ma non incardinate nella sostanza vibrante di una vita entusiasta. Caifa si straccia le vesti per tentare di scrollarsi di dosso la forza irresistibile di una interrogazione autentica e diretta da cui si sente irreparabilmente contaminato e che la sua maestria nella dottrina gli aveva sempre permesso di relegare lontana. Tanta è la forza dell'autenticità che mostra immediatamente il re nudo. Quanti Caifa, forti del proprio recinto di norme e gerarchia, si chiudono nel compunto sdegnoso distacco di chi si chiama fuori e si erge a giudice delle istanze altrui senza compromettersi. Segno di una debolezza interiore e di una perdita irreversibile di gioia che inaridisce ogni liturgia possibile. E finisce che l'oasi dove re-incontrare un barlume di vitalità diventa il barman del Martini alla maniera di Hemingway.
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