Non facciamo quasi più caso a chi cerca di venderci una rosa. Guardiamo con indifferenza o nei migliori dei casi con malinconia chi cerca di convincerci a comperare strani giocattoli: razzi coloratissimi e inutili palline gommose che si appiccicano dove vengono scagliate. È il mercatino assediante dell'invendibile, sussulto di dignità contro l'umiliazione dell'elemosina. Leggevo anni fa, in uno dei testi fondamentali della storia del teatro, che le prime compagnie dell'arte si organizzarono proprio come società d'indigenti che attraverso piccole rappresentazioni sbarcavano, è il caso di dirlo, il lunario. Alla ricerca di uno scambio in una società che, oggi irrigidita anche psicologicamente da un'austerity che è proprio negazione dello scambio, anche simbolico. Una società sempre più tesa e piena di problemi. Ai suoi margini, tutto un mondo che cerca di inserirsi in una realtà che perde ogni giorno un po' di magia. E con la stessa ambigua tristezza di un clown possiamo ritrovare, tra queste persone, in queste merci, e in queste loro rappresentazioni, il confine tra il vivibile e il non vivibile, tra il senso e la meccanicità di un gioco finito da tempo e che non ha spazio per chi non ne è ancora entrato, o ne è uscito. Il nostro dramma più grande. Un'immensa, residuale illusione.
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