mercoledì 1 maggio 2013
Bizzarra, ma fino a un certo punto, l’idea di P. – trasparente sigla pseudonimica di Pier Luigi Battista, autore di La fine del giorno (Rizzoli, pagine 168, euro 16) – di scrivere un saggio che potrebbe intitolarsi Vecchiaia e sesso nell’età del Viagra. 
P., brillante giornalista, intendeva concedersi una vacanza «letteraria» per distrarsi dai quotidiani impegni di scrittura politica e di cronaca. Il suo rovello, con più o meno inconsci risvolti autobiografici, era: come mai uomini di potere, arrivati a una certa età, si rovinano prestigio e carriera per avventure con ragazze disinibite, che oltretutto li disprezzano? È non è solo il caso di un notissimo uomo politico italiano, ma ci sono cascati anche il generale Petraeus, l’ex direttore dell’Fmi Dominique Strauss-Kahn, il deputato democratico di New York Anthony Weiner, il ministro liberiano Willie Knuckles, il presidente dello Stato di Israele Moshe Katsav, il ministro degli Esteri finlandese Ilkka Kanerva, il senatore repubblicano Larry Craig, il governatore di New York Eliot Spitzer, il ministro malaysiano Chua Soi Lek, il governatore indiano ottantaseienne Narayan Dutt Tiwari, senza dimenticare il governatore della California Arnold Schwarzenegger e, in casa nostra, l’ex sindaco di Bologna Flavio del Bono, e il deputato pugliese Cosimo Mele.

P. raccoglie molto materiale dalla letteratura: c’è il professor Unrat dell’Angelo azzurro di Heinrich Mann, e poi si può attingere da Un amore di Dino Buzzati, da una dimenticata novella di Italo Svevo, dalla Forza del carattere di James Hillman, da molti altri romanzi, ma soprattutto da L’animale morente di Philip Roth, che P. molto apprezza.

Silvia, la moglie di P., lo scoraggia blandamente: «Fai attenzione; in questo genere di argomenti, alla tua età, basta un niente per sembrare il solito “vecchio porco”».

Improvvisamente tutto cambia quando a Silvia, cinquantadue anni, viene diagnosticato un cancro. P. perde ogni altro interesse, anche di scrittura, capisce che da quel momento non può e non deve far altro «se non tentare di lasciarla mai più sola, fino alla fine del suo giorno nel mondo dei vivi». E cambia il rapporto di P.

col saggio che intendeva scrivere, e l’indulgenza con cui considerava l’ossessione erotica di Roth, adesso gli appare semplicemente oscena e se ne vergogna.

Seguono le peripezie dei controlli medici, le speranze, gli appigli perfino alle cure miracolistiche dei ciarlatani, senza escludere un’ipotesi Lourdes, e ci sono i colloqui con «medici premurosi nelle cure, attenti, delicati, sensibili, ma dai cui occhi traspare sempre un sentimento di attonita fatalità». In una pagina straziante, P. sopraffatto dal dolore, scoppia a piangere mentre è solo nel suo studio, ma piange piano, per non farsi sentire, e poi si accorge che la figlia Marta, anche lei, piange piano nella sua stanza, e, poco più in là, la stessa Silvia piange piano.

P. e Silvia non sono credenti, ma nella tragedia affiorano quegli elementi di verità e di speranza che sono naturaliter cristiani. 
Subentra in P. il pensiero di dover «seppellire ciò che restava di lei su questa terra» (quindi non tutta Silvia è lì) e c’è la desolazione della cerimonia laidamente burocratica della cremazione, che a Roma è affidata alla stessa società che smaltisce i rifiuti. Ma l’unico conforto viene pur sempre dagli amici che dicono di pregare per Silvia, la quale, del resto, negli ultimi tempi godeva il minimalismo delle piccole gioie elementari (un pranzo, un paesaggio, una mostra d’arte), affidandosi al «Dio delle piccole cose». In fondo, che cos’è questo bellissimo e toccante diario, se non il tentativo «di intrecciare un fitto dialogo interiore che va oltre la morte», anche se forse (o senza forse) è solo una favola?
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