Una ventina d'anni fa fece discutere un articolo del gesuita Xavier Tilliette su Communio (sia detto per inciso, che peccato che abbia chiuso, nel silenzio quasi totale della cultura cattolica italiana; assieme a Concilium, che per fortuna continua le pubblicazioni grazie all'editrice Queriniana, era l'unica rivista teologica del nostro Paese) che si poneva la domanda: Gesù non ha mai riso? Contravvenendo all'opinione di vari studiosi (si pensi al romanzo Il nome della rosa di Eco) secondo cui nel cristianesimo gioia e ilarità non sarebbero di casa. Nel libro La porta del cielo (Piemme 1997, anch'esso non facile da reperire) il poeta Mario Luzi affronta un'altra curiosa questione: Gesù non ha mai nominato la poesia, neppure di sfuggita. Ma in qualche modo ogni poeta non può non aver a che fare con lui, sia perché ha più volte citato i profeti e nella cultura di allora i poeti erano i profeti, sia perché il suo linguaggio esprime una forza poetica straordinaria. Annota infatti Luzi: «Il ben più piccolo demiurgo che è il poeta gli si può accostare non nella potenza e nell'autorità della parola, ma nella autenticità che proprio da lui deriva, nella esecrazione della falsa parola, della parola che non dice o che nasconde e che comunque è strumento di ipocrisia, sepolcro imbiancato, formalismo, cerimonia».
Nel volume, che unisce alcuni suoi testi a una lunga conversazione col critico Stefano Verdino sul cristianesimo, Mario Luzi (1914-2005), figura chiave del Novecento (chi fosse interessato più comprarsi Tutte le poesie edite da Garzanti), autore della Via crucis al Colosseo nel '99, senatore a vita che scrisse testi appassionati in difesa dell'unità della patria e della pace, si mette davvero a nudo. Vale la pena ascoltarlo. Ecco cosa dice sulla preghiera: «Io vedo la preghiera come un ritorno della parola a chi l'ha creata, al Verbo. Negli uomini e in tutto ciò che è presente nel mondo c'è un respiro e un'aspirazione orante. Se noi guardiamo il mondo, pur disturbato e violato, in sostanza c'è questa verticalità, è implicita questa preghiera». O sulla Chiesa: «Innanzitutto è una coralità trascendente, un insieme unitario di tante individualità. Ma è anche un corpo materiale, perché la materia non è un'abiezione, la materia e il corpo sono cose belle. La Chiesa è un corpo reale di persone concorrenti e confluenti in una speranza comune». Oppure sull'aldilà: «Il significato di un paradiso va congiunto con un sentimento di progressione che investe l'umano nel suo percorso verso il divino. La perfettibilità del mondo comporta la salvezza umana e la salvezza è una progressione dal greve al sottile». Qui affiora l'influsso di Teilhard de Chardin, uno dei suoi punti di riferimento teologici così come san Paolo e Pascal. Mentre dal punto di vista letterario Luzi cita i grandi scrittori francesi del '900, Mauriac in primo luogo, protagonisti di una stagione narrativa che non ha paragoni a confronto col parallelo italiano espresso da Lisi o Bargellini, che pure stimava molto. «La nostra tradizione - precisa - è troppo letteraria, mentre quella francese, per quanto letteraria, anche più letteraria, tuttavia buca la letteratura stessa».
Tornando alla situazione del cristianesimo oggi, Luzi è ben consapevole delle sue difficoltà («quando si va in una chiesa metropolitana si avverte una desolazione, perché è un po' terra di nessuno»), dice di non amare il cattolicesimo organizzato (si accostò alla Fuci in età giovanile solo perché si respirava un'aria antifascista) e riguardo ai papi si sente legato soprattutto a Giovanni XXIII per la sua sintonia con l'uomo. Apprezza Giovanni Paolo II per la sua resistenza prima al comunismo e poi alla disumanità del capitalismo, ma rileva anche che a suo parere durante il suo pontificato «si è rimasti al box del cammino teologico, mentre è avanzato il cammino universale e umano della Chiesa». Giudizio che può far discutere, ma senza dubbio è condivisibile un'altra sua affermazione, «l'idea ancora diminutiva della donna» che prevale oggi nel cattolicesimo nonostante i passi compiuti.
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