Piero Boitani, anglista e comparatista, ci spinge a rileggere i drammi romanzeschi di Shakespeare alla luce dei Vangeli. Ma il titolo del suo libro, Il Vangelo secondo Shakespeare (il Mulino), significa soprattutto un'altra cosa: da Amleto alla Tempesta, con Re Lear e Pericle, Cimbelino e Racconto d'inverno, sembra che il grande drammaturgo voglia proporre la sua «buona novella». Come in nuove incarnazioni, la sacra scrittura rivive e risuona inaspettatamente nel tessuto segreto di queste opere, nel loro pathos e nella loro musica, nelle visioni vertiginose della loro cosmologia e nei loro toni sapienziali.
Wystan H. Auden ha scritto una volta (in Cristianesimo e arte) che è impossibile rappresentare Cristo a teatro, perché se lo si rende drammaticamente interessante, diventa come altri personaggi mitologici o letterari, cioè smette di essere Cristo. Certamente Shakespeare lo aveva capito: o più probabilmente è Auden che lo ha capito pensando a Shakespeare. In effetti nelle opere shakespeariane più tarde la storia sacra è un pane che si spezza per nutrire storie diverse. In Lear e Cordelia ci sono la passione e la «patientia» di Gesù e di Giobbe. In Amleto c'è la meditazione sulla Provvidenza e sulla necessità di essere pronti («the readiness is all»). Infine La Tempesta, scrive Boitani, «porta un'inusitata e complessa Buona Novella. In questo dramma multiforme, metamorfico, inafferrabile (") c'è anche la predicazione di un vangelo umano». Echi biblici e favole pagane, l'Età dell'Oro e il Giardino dell'Eden convivono, come insegnava il Rinascimento italiano. Queste parabole teatrali delineano comunque «un cammino verso l'amore per Dio e per il prossimo», nella convinzione «che si può raggiungere la felicità sulla terra (") Ricongiungersi ai propri cari, riscoprirli, riconoscerli, costituisce la felicità».
Shakespeare è un mago fecondo della mescolanza e dell'ibridazione: nasconde e confonde la sua sapienza biblica seminandola in ogni angolo della vita profana, ma fa nascere così nuovi frutti.
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