Fin dal titolo il libro di Carlo Capra Gli italiani prima dell’Italia propone un rovesciamento di prospettiva. Un protagonista del Risorgimento, Massimo d’Azeglio, affermò che una volta fatta l’Italia bisognava fare gli italiani. Più empiricamente per Carlo Capra gli italiani vengono prima: e con tutta la necessaria attenzione alla varietà dei fenomeni storici ricostruisce le vicende di un «lungo Settecento» che va «dalla fine della Controriforma a Napoleone». Questa scelta si rivela proficua. Il volume è ricco di dati e di riflessioni riguardanti la demografia, l’agricoltura, le diversità regionali, gli sviluppi della scienza, il costume, le tendenze culturali e le vicende politiche. Emerge con particolare chiarezza l’importanza di autori come Lodovico Antonio Muratori (1672-1750), Pietro Verri (1728-1799) e Vincenzo Cuoco (1770-1823) nel definire il problema della modernità italiana. Il modenese Muratori, un ecclesiastico di origine borghese, aprì il Settecento con la sua opera più famosa, Repubblica letteraria d’Italia (1703), e con la sua attività di erudito, bibliotecario, critico letterario e moralista è il più operoso intellettuale legato alla Chiesa: combatté «la superstizione, gli eccessi di zelo e le forme di devozione distorta» sottolineando, fra le virtù cristiane, l’importanza centrale della carità. Il conte milanese Pietro Verri fu ufficiale dell’esercito austriaco nella Guerra dei sette anni, studiò economia, attaccò il formalismo delle accademie e infine fondò Il Caffè, la più innovativa rivista del nostro illuminismo. Rinnovò la prosa italiana muovendosi fra enciclopedismo e giornalismo. Studiò le condizioni di una vita sociale e individuale più felice e più libera, e in quanto riformista vide presto pericoli e limiti sia della rivoluzione francese che dell’amministrazione napoleonica. Di Vincenzo Cuoco, molisano e poi avvocato a Napoli, si è detto che come critico della rivoluzione è il nostro Edmund Burke. Dopo il fallimento cruento della rivoluzione napoletana del 1799, scrisse il suo capolavoro, in cui criticò l’astrattezza della Ragione giacobina e il Terrore rivoluzionario: disse che «si era riformato più di quello che il popolo voleva». E l’errore, secondo Cuoco, non si doveva ripetere in Italia.
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