Martin Mosebach, in Eresia dell'informe (Cantagalli, pp. 256, euro 17,90), ha innalzato un commosso e commovente grido di dolore per il deplorevole stato della liturgia occidentale, dopo la riforma del 1968. La bella traduzione di Leonardo Allodi arricchisce di spunti narrativi le argomentazioni dell'autore, nonostante qualche incertezza sui nomi degli arredi, dei canti e delle mansioni liturgiche, spesso conservati in latino («Purificatorium», «Introitus», «Ostiarium») pur avendo i corrispettivi italiani (e l'inesistente «patena per la comunione» diventa correttamente, in pagine successive, il «piattino per la comunione»).
Mosebach è ingeneroso nell'attribuire alla riforma di Paolo VI quelli che, invece, sono gli abusi della riforma stessa. Egli dimentica che proprio Paolo VI abolì la Congregazione per la liturgia, che egli stesso aveva istituito, non appena si avvide degli abusi liturgici che incominciavano a serpeggiare, nominando monsignor Bugnini, che era alla testa di tale Congregazione, nunzio in Iran.
Mosebach ha certamente molte buone ragioni, ma, in definitiva, sembra scambiare gli effetti con la causa. Certo, molto spesso, per il protagonismo di certi sacerdoti «creativi», la liturgia è purtroppo tramutata in spettacolo, e con amara ironia Mosebach può scrivere: «Entro in chiesa per vedere Dio, e ne esco trasformato in critico teatrale». Ma questo è dovuto alla riforma liturgica o alla mancanza di fede di chi la interpreta?
Posso addurre la mia esperienza personale. Nei centri dell'Opus Dei che io frequento, la Messa è celebrata secondo la liturgia riformata, osservandone la lettera e lo spirito. Solitamente è in latino, perché chi vi partecipa di latino ne mastica un po' e, comunque, sono disponibili dei messali bilingui. Il sacerdote, dopo la consacrazione, tiene uniti l'indice e il pollice che hanno toccato le sacre specie, e se deve aprire il tabernacolo stringe la chiave tra l'indice e il medio, come Mosebach rimpiange. Non è vietato dalla riforma liturgica, anche se nelle interpretazioni ciò che è indicato come facoltativo è considerato abolito. Si riceve la Comunione in ginocchio e preferibilmente sulla lingua, seguendo l'esempio anche di Benedetto XVI, eccetera. Insomma, se c'è fede e scrupolo di osservanza, anche la liturgia riformata è funzionale allo scopo. E non sempre l'evoluzione della tradizione avviene impercettibilmente come auspica Mosebach: ogni tanto interviene una svolta, come l'amore di Giovanni Paolo II per la Madonna ha innovato nella recita del Rosario, collaudata dai secoli e da innumerevoli santi, introducendo addirittura i cinque nuovi misteri luminosi.
Senza contare le innovazioni liturgiche positive. Per esempio, nel glorioso e venerabile Canone romano vengono nominati i santi Lino, Cleto, Clemente, Sisto, Cornelio, Crisogono, eccetera, ed è bellissimo assaporare in tal modo la comunione dei santi nel tempo e nello spazio: ma non è esplicitamente nominato lo Spirito Santo, come invece fanno le nuove Preci eucaristiche («Manda il tuo Spirito, eccetera»). È la grande questione dell'«epiclesi», soppressa nel rito romano per correggere gli hussiti: chi conosce la storia resta tranquillo, ma certo se nel Canone romano, oltre a san Giuseppe meritoriamente introdotto da Giovanni XXIII, si nominasse esplicitamente anche lo Spirito Santo, sarebbe forse ancor meglio.
Insomma: la liturgia introduce al mistero, ma non pretende di sostituire il mistero che resta «accessibile» solo attraverso la fede. Con un po' di fango impastato con la saliva Gesù guariva i ciechi, e tuttora accetta di trasformare nel suo Corpo, Sangue, Anima e Divinità, il pane e il vino offerti su una disadorna patena e in un calice fantasioso, da un sacerdote con una pianeta arcobaleno. E ciascuno, sacerdote e fedeli, si assume le proprie responsabilità davanti a Dio, unico Giudice.
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