domenica 18 novembre 2018
Dormivamo praticamente per terra, in sette o otto nella stessa stanza, con una torcia a petrolio per rischiarare le notti. Eravamo accomodati dove capitava, nella dependance usata come deposito per masserizie e polvere. Regno di topi, blatte e scorpioni. Senza porte, senza finestre, adiacente allo "Spinghar hotel", una stamberga di Jalalabad, nell'est dell'Afghanistan. Per quasi tutto il tempo del mio soggiorno, prima di riuscire a recuperare una sistemazione più decorosa, ho dormito infilato nel sacco a pelo, sempre vestito per il troppo freddo, stendendomi in precario equilibrio su tre sedie. La mattina erano ossa spaccate dai dolori. Ma potevo dirmi fortunato. A qualcun altro del gruppo di giornalisti italiani gli era toccato servirsi di un materasso macilento e maleodorante. Rivestito con fogli di giornale per nascondere sporcizia e sangue rappreso. Tracce lasciate da un combattente afghano ferito e precedentemente ricoverato su quel giaciglio.
Un altro dilemma era che cosa mangiare. Ma soprattutto dove trovare qualcosa da mettere sotto i denti. Le cucine dello "Spinghar" era meglio dimenticarsele e guardare da un'altra parte. E l'acqua potabile da bere, l'acqua per lavarsi e il gabinetto? Tutto da inventarsi. Ma se il disagio della situazione poteva essere superato adattandosi alle condizioni del momento, come è accaduto mille altre volte, ben più complicata era la presenza nervosa di decine di combattenti afghani appartenenti a differenti clan tribali. E non tutti amici tra di loro. Noi in mezzo ai loro modi più da banditi che regolano i conti a suon di schioppettate di vecchie spingarde, che di soldati. E non tutti amavano noi stranieri.
Il lettore non sa quasi mai nulla di come il giornalista lavori in guerra e se le righe dell'articolo che sta leggendo sono state scritte al lume di una candela, usando una matita. Ma si va in guerra anche così, ci si ingegna per superare gli imprevisti. Nello zaino si infilano buste di minestra liofilizzata accanto a scatolette di tonno da non poterne più e a medicinali per fermare il mal di pancia. E poi scorte di taccuini e matite. Ma soprattutto non si pensa di morire, anche se si è consapevoli che per voi lettori, certe volte, si tratta di rischiare un passo in più, per potervi raccontare quel pezzetto piccolissimo di storia che compone il grande quadro di un fatto, un avvenimento, una guerra.
Durante una di quelle serate afghane, cercando di raggiungere il sonno che non arrivava mai perché tutto era troppo scomodo e pericoloso, nel raccontarci le nostre vite tra colleghi lontani da casa, qualcuno tra i più anziani disse: «Il nostro lavoro non è un mestiere dannato, ma impone sempre di scegliere. E spesso le scelte sono difficili, perché talvolta il calcolo del rischio è al di fuori di qualsiasi controllo». Fu in quei difficili giorni a Jalalabad che li vidi vivi per l'ultima volta. Ci salutammo una mattina di metà novembre nel viale alberato della stamberga. Tutti sapevamo che a Kabul sarebbe stato ancora tutto molto più difficile, ma quello era il traguardo da raggiungere. Era lunedì 19 novembre 2001, Maria Grazia Cutuli del "Corriere della Sera", Julio Fuentes dello spagnolo "El Mundo", insieme ai colleghi dell'agenzia "Reuters" Harry Burton e Azizullah Haidari, cadevano in una imboscata tesa da un gruppo armato. Nessuno pensava di dover morire di passione professionale per la notizia.
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