mercoledì 25 luglio 2018
L'argomento non è allegro, ma fa pur sempre parte della tradizione classica. Parlo della Lettera sul suicidio, di Lucio Anneo Seneca, che Silvia Stucchi, classicista dell'Università Cattolica, ha tradotto e commentato per Edb (pagine 152, euro 12,00, con testo latino a fronte). La lettera senecana (bellissimo e inusitato aggettivo per significare “di Seneca”) è la n. 70 delle Lettere a Lucilio, e il succo è in queste frasi: «Non è un bene il vivere, ma lo è vivere bene»; «Non è importante morire prima o dopo, ma lo è morire bene o male; morire bene è fuggire il rischio di vivere male». Seneca non dà regole generali, non incoraggia il suicidio in quanto tale, ma lo considera una decisione estrema per chi, minacciato di morte, ne previene l'esecuzione. «Ai tempi di Seneca – avverte Stucchi nell'ampia premessa – era ancora lontana l'affermazione del cristianesimo, che ha plasmato la nostra etica: esso era un culto minoritario, oggetto della persecuzione del 64, e il suicidio era valutato in un'altra ottica»: non tanto come modo per sfuggire a una morte inflitta, o come alternativa a una vita divenuta insostenibile, quanto come affermazione della propria libertà. E qui si vede il confine sottile tra stoicismo e cinismo. La curatrice fa un ampio excursus sulla lettera come genere letterario, di cui Cicerone, con le sue oltre 770 lettere che ci sono pervenute, è il riferimento obbligato per ogni altro epistolario antico; ma c'è anche l'epistolario di Epicuro dal quale Seneca trasse ispirazione per l'intento pedagogico delle sue Lettere a Lucilio. Yolande Grisé, citata da Stucchi, ha esaminato le tipologie del suicidio nel saggio Le suicide dans la Rome antique (1982). Ci si apriva le vene con vari strumenti: spada, pugnale, coltello, rasoio; ci si colpiva alla gola, al petto, nella zona del cuore, al ventre, o al fianco; talvolta ci si lasciava cadere sull'arma. Talvolta si faceva ricorso a un amico o a uno schiavo: Bruto, quando l'amico Stratone gli rifiutò l'estremo favore, dichiarò che si sarebbe rivolto a uno schiavo: così convinse Stratone a eseguire la richiesta. Il suicidio per impiccagione era riservato agli schiavi, gli aristocratici l'aborrivano, come pure il suicidio per precipitazione, che sfigurava il cadavere. Il veleno era un metodo che attraversava tutte le classi sociali. Tacito, negli Annali riportati da Stucchi in appendice con altri testi latini, è severissimo con la vigliaccheria di Messalina che fino all'ultimo rifiutò di uccidersi finché il pugnale di un tribuno, inviato da Claudio, le fu conficcato alla gola e al petto. Sempre Tacito ha descritto minutamente il laborioso suicidio di Seneca (65 d.C.), ispirato alla morte di Socrate. Ricevuto l'ordine di uccidersi, Seneca chiese le tavole per il testamento, che gli furono negate. Disse allora agli amici che lasciva loro in eredità l'esempio della sua vita. Si tagliò le vene, ma il sangue usciva lentamente, essendo l'anziano filosofo ormi debilitato. Chiese allora la cicuta, che neppure fece effetto. Allora «entrò in un bagno bollente per stimolare la circolazione del sangue e la propagazione del veleno. Con macabra solennità, asperse gli schiavi con l'acqua della vasca mescolata al proprio sangue, come libagione a Giove Liberatore». Sulla copertina del libro è raffigurato un particolare della cosiddetta “Tomba del tuffatore”, dove si vede un giovane che si lancia felice dal trampolino. Non è, probabilmente, un suicida, ma un'allegoria dell'anima che la morte distacca dal corpo. Splendida immagine che alleggerisce la tragicità dell'argomento così ben sviscerato da Silvia Stucchi. Leggere i classici è anche un esercizio di umiltà: conferma che tutto è già stato scritto, prima e meglio di oggi.
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