«Aspettami ed io tornerò a onta di tutte le morti. E colui che ormai non mi aspettava, dica che ho avuto fortuna». Attendere un ritorno. Ma ancor di più, agognare il giorno che si farà ritorno. Da una guerra, da una prigionia. Dalla schiavitù. Che sia l'attesa di un soldato impegnato sul fronte della Seconda guerra mondiale, qui evocata dal poeta russo, che ricoprì anche incarichi politici nel Soviet supremo dell'ex Urss, Kostantin Simonov; oppure quella di un essere umano piegato a servo di un altro essere umano, che di quel poema non conosce una sillaba, ma che della libertà di uomo ne fa assidua ricerca, la sua voce non smetterà di implorare: «Aspettami quando più non mi aspettano gli altri».Schiavo. Una parola che fa pensare a qualcosa di lontano nel tempo. A colonne cammelliere dal passo lento, al clangore delle catene, allo schiocco delle frustate, e al silenzio della paura. Lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo è ancora tra di noi, sotto gli occhi di tutti. Tranne di chi non vuole vedere e sentire. Gli schiavi esistono e ogni giorno anche loro piangono quell'appello: «Aspettami e io tornerò a onta di tutte le morti». Lui si chiamava Ngor Atak Luil e dopo averci raccontato la sua storia di schiavo, rimase tutto il pomeriggio in silenzio, fino al tramonto, seduto nel giardino di casa del vescovo comboniano Cesare Mazzolari, che lo ospitava a Nairobi.Era stato un abt, parola araba che significa schiavo. Un anno incatenato e cinque da fuggiasco. Adesso, libero di camminare, di parlare, libero di piangere la sua solitudine, e non più le botte dei lanzichenecchi del padrone, Ngor cercava solo di immaginare il giorno del ritorno a casa per ritrovare un figlio cresciuto e una moglie invecchiata.La famiglia di Ngor aveva fame. Lui era dunque partito dal villaggio di Kuajak, distretto del Gogrial, Sudan centro occidentale, per andare al mercato di Abyei, a vendere il suo unico toro. A piedi per 250 chilometri. I dinka, per tradizione, non macellano il bestiame allevato, lo devono vendere ad altre tribù. Ngor, sulla strada del ritorno, insieme ad altri disperati, viene catturato da predoni baggara, e successivamente venduto a un possidente arabo che lo sfrutterà nella sua azienda agricola. La fatica e le botte, il cibo scarso e scadente, lo annientano lentamente. Un nero ridotto pelle e ossa, non vale più un soldo sudanese. Abbandonato al suo destino, «comunque morirà», pensa il suo padrone. Ngor si salva.Il commercio disumano dell'Arabian road, che sfociava nel porto sudanese di Suakin e poi sulla penisola arabica, viene abolito dal Congresso di Vienna nel 1815, ma dopo ben oltre un secolo la storia di Ngor Atak Luil e di molti altri, stava lì a confermare un'altra realtà. Fu un militare italiano, geografo ed esploratore, Romolo Gessi, nel 1876, su incarico del governatore inglese di Khartoum, il generale Charles George Gordon, e dietro sostegno del missionario Daniele Comboni, a organizzare un esercito di soldati nuba per dare battaglia agli schiavisti del Sudan arabo.Eppure, oggi, anche nella nostra Italia incrociamo e non vogliamo vedere vecchie e nuove schiavitù. Come quella dei braccianti stagionali, costretti a una vita da randagi, costretti in rifugi improvvisati che sono dei ghetti abitati dagli uomini e dalla spazzatura, gonfi di pena e solitudine. Come era quel rottame d'automobile trasformata in camera da letto o quel capannone in disuso con "monolocali" di cartone, e per riscaldarsi un fuoco di vecchi pneumatici, alla periferia della calabrese Rosarno. E guadagnare un euro per ogni cassetta da 20 kg di clementine. Schiavi del caporalato. Che tutti conoscono che tutti sanno, «a onta di tutte le morti».
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