Nella controversia fra Paola Mastrocola (insegnante, scrittrice) e Tullio De Mauro (ex ministro dell'istruzione, linguista) non è sempre chiaro chi abbia ragione. Mastrocola è più tradizionalista: difende la lezione ben fatta, lo studio a casa, l'autorità o autorevolezza degli insegnanti, che da parte degli studenti richiede rispetto e volontà di apprendere. De Mauro insiste invece sul fatto che gli studenti apparentemente «svogliati e peggio» sono tali perché la scuola non funziona: gli insegnanti devono occuparsi di creare motivazioni allo studio per le cosiddette «pecore nere» oggi in aumento.
Non si sa da quale parte stare. I due punti di vista fanno l'impressione di una sola verità che invece di essere lasciata intera e fronteggiata con intelligente buon senso, viene tagliata in due metà contrapposte per amore di polemica. Ma nell'articolo di De Mauro uscito martedì 17 sul "Corriere della Sera" si nota un problema di fondo che è sfuggito all'analisi. Citando un'imponente ricerca fatta negli Stati Uniti, De Mauro conclude che «la crescita della scolarità e dei livelli di istruzione» è «una chiave dello sviluppo anche economico». Viene in mente la distinzione di Pasolini: questo «sviluppo» (economico, tecnologico) vuole dire «progresso» (morale e civile)? Non è affatto garantito. Scolarizzare una popolazione non è esattamente la stessa cosa che educarla e migliorarne la mentalità e i comportamenti pubblici. Sembra anzi (De Mauro lo segnala senza concluderne nulla) che le società il cui sviluppo è incrementato dalla scolarizzazione rovinano poi culturalmente chi esce dalla scuola. La scuola alfabetizza, la società de-alfabetizza. Il 38% degli adulti in Italia hanno gravi deficit di lettura, scrittura e calcolo. Domanda: perché oggi l'istruzione incrementa lo sviluppo di società che poi si dimostrano anticulturali? C'è da chiedersi quale sia il tipo di società che migliorerebbe culturalmente i cittadini una volta usciti dalla scuola.
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