«Cos'ha questa gente di così diverso dall'altra gente che stasera passa per le vie del centro di Milano, di Vienna o di Parigi? Alla prima occhiata, capisco subito che qui c'è una società diversa, sento la presenza d'un elemento nuovo: l'uguaglianza. Non l'uniformità, sono tipi molto diversi uno dall'altro; ma l'uguaglianza». Così scriveva, estatico, Italo Calvino nel 1952 sull'Unità, di ritorno da un viaggio in Urss. L'Unione Sovietica come campione internazionale di «uguaglianza, senso di comunità, devozione del popolo per i propri capi» e, come se non bastasse, «pure amore per la natura».
La citazione è nel volume Sorvegliati speciali (Longanesi, pp. 288, euro 18), che Mirella Serri ha scritto dopo aver sfogliato i faldoni di polizia dal 1945 al 1980. Sì, la polizia teneva d'occhio gli intellettuali comunisti e socialisti, e anche da quei faldoni emerge la vergogna e la miseria culturale di una serie numerosissima di personaggi che per anni hanno decantato il paradiso sovietico, chiudendo gli occhi per non vedere gli eccidi staliniani e i carri armati sovietici nei Paesi limitrofi.
La cosa singolare è che Serri, come risulta dal titolo e dal sottotitolo ("Gli intellettuali spiati dai gendarmi, 1945-1980") sembra più scandalizzata dal fatto che certuni intellettuali comunisti e socialisti siano stati cautamente sorvegliati dalla polizia, che non da ciò che quegli stessi personaggi dicevano e facevano per impiantare in Italia la cultura sovietica.
«I rapporti di polizia - talvolta ingenui, spesso sgrammaticati, quasi sempre rozzi quando tentano un'analisi, sovente frutto di una presenza assai difficile da conciliare con una democrazia matura - gettano un fascio di luce su una realtà di quei primi decenni della seconda metà del secolo scorso che oggi quasi tutti, a sinistra ma non solo, tendono a rimuovere, a coprire con un velo "pietoso" quasi si trattasse di gettare sale su ferite aperte». Questa frase riassume alla perfezione la curvatura mentale della scrittrice, che insegna Letteratura e giornalismo alla Sapienza di Roma. Ai rapporti di polizia, pur con le attenuanti e aggravanti dell'inciso, viene riconosciuta una funzione utile in quanto fari di luce su una realtà che Serri stessa giudica negativamente, senza però denunciarla in prima persona, preferendo controbilanciare la vergogna (non c'è altra parola) della sinistra culturale di quegli anni, con i rapporti di polizia che, fra l'altro, dai lacerti citati sembrano tutt'altro che ingenui e rozzi. È inutile: se il cuore batte a sinistra, continuerà a battere da quella parte, pur ammettendo che era sbagliata.
Significativo come esempio di «operazione censoria e liberticida» il «notissimo articolo del trentatreenne Giulio Andreotti che rimproverava Vittorio De Sica per la visione pessimistica di Umberto D»: ma come, De Sica ha la sacrosanta libertà di fare i film che vuole, e il trentatreenne Andreotti non è libero di scrivere che un film non gli piace? E Umberto D (1952). è stato forse sequestrato? E De Sica, dal 1952 alla morte nel 1974, è stato a marcire in galera?
La viltà, l'opportunismo, la cecità della cultura comunista erano arcinote ben prima che Mirella Serri scartabellasse i faldoni del Ministero dell'Interno: la bibliografia scientifica e pubblicistica è assai ricca e documentata, come Sergio Romano, che dirige la collana Longanesi in cui è ospitato il libro di Serri, dovrebbe conoscere. Per il tono arguto e disincantato, caratteristico dell'autore, mi limito a citare un saggio che conosco molto bene, Il pensiero militante, di Franco Palmieri, che ha il sottotitolo "Vent'anni di ricatto marxista sulla cultura italiana". È stato pubblicato dalle Edizioni Ares nel 1991.
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