Siete stati a vedere la mostra allestita al Museo teatrale alla Scala per i quarant'anni dalla morte di Maria Callas? C'è tempo fino 31 gennaio prossimo. Oltre a un documentario splendido che rielabora i pochi filmati che ci sono rimasti della “divina” – i concerti di Amburgo del 1959 e del 1962, quelli al Covent Garden del 1962 e del 1964 e un paio di interviste televisive – sono esposti i costumi indossati dall'artista nei dodici anni di attività scaligera (1950-1962), dalla veste quasi astrattista disegnata da Salvatore Fiume per la Medea del 1953, alla memorabile tunica plissettata di Piero Zuffi per la Vestale del 1954, ai sontuosi bordi di pelliccia di Nicola Benois per l'Anna Bolena del 1957. Un modo per far rivivere la gestualità di un'attrice che, guidata da Luchino Visconti, per la celeberrima Traviata del 1955 si ispirò alle pose di Eleonora Duse immortalate del pittore Eduardo Kaulback.
La cosa più giusta sulla Callas l'ha detta Raina Kabaivanska, soprano non dei minori: «La signora Callas ha rovinato tutti i soprani e li ha rovinati forse per tanti, tanti anni. Ha cominciato col rovinare i soprani leggeri con una voce drammatica. Ha rovinato i soprani drammatici facendo propria una interpretazione tutta sua, così noi adesso siamo vittime della signora Callas. Io, per carità, non vorrei mettermi sul piano della rivalità perché siamo lontane, lontane: io sono una cantante, mentre la signora Callas è un'epoca dell'opera… un'epoca». È la differenza tra l'eccellenza e il mito.
Dopo La sonnambula callasiana del 1955, diretta da Leonard Bernstein, Eugenio Montale scrisse: «Fenomenale soprano leggero tragico di sapore espressionistico. Quando non canterà più lascerà dietro di sé una leggenda». La leggenda c'è, più viva che mai, ma la Callas non ha mai smesso di cantare perché la sua sterminata e raffinatissima discografia è lì per sempre a dar ragione alla Kabaivanska: solo un soprano di altissima umiltà può oggi cimentarsi nel Macbeth, dopo aver ascoltato l'inarrivabile edizione della Callas. Per inciso, fu proprio la Kabaivanska la protagonista dei Vespri siciliani affidati alla regia di Maria Callas – ormai fuori dalle scene – e Giuseppe Di Stefano nel 1973: una prova che fu giudicata mediocre, non per colpa della protagonista.
Alla sterminata e, bisogna ammetterlo, ripetitiva bibliografia callasiana, si aggiunge Non solo voce: Maria Callas, di Italo Moscati (Castelvecchi, Roma, pagine 96, euro 11,50), che riprende anche nel titolo il documentario che l'autore firmò per la Rai nel trentesimo anniversario della morte della divissima. Un bel documentario, un po' troppo didascalico, con una fastidiosa voce fuori campo (Meglio farà Gianni Minoli nel 2010, in una puntata di La storia siamo noi per Rai 2).
Moscati – che inopinatamente assegna a Nicola Rossi-Lemeni la qualifica di “tenore”, quando il grande cantante che aiutò la Callas esordiente è stato un grandissimo “basso” – fa un'osservazione importante quando, a commento del discutibile montaggio tv in cui la Callas e la Tebaldi cantano Vissi d'arte, vissi d'amore, dalla Tosca, alternandosi frase per frase, parla di “ferocia” e di “sublime”: «Maria aveva conosciuto sia la ferocia delle delusioni e illusioni, sia il sublime cui dava nelle interpretazioni in cui era ed è inarrivabile, un'intensa intimità indimenticabile».
Perfetto. Purché s'intenda il sublime nel senso filosofico elaborato da Edmund Burke (1729-1797), come eccedenza, nell'opera d'arte, dell'idea a cui essa rimanda rispetto alla forma in cui è espressa. Idea di dolore e di pericolo, pur rassicurante, come quando si osserva, ben riparati sulla riva, un naufragio lontano. La voce della Callas trasmette il sublime, un impasto di sgomento e repentaglio al più alto grado di splendore.
Quanto alla rivalità con la Tebaldi, una volta la Callas si sottrasse al confronto affermando che sarebbe come fare un paragone fra la Coca-Cola e lo champagne. Lei, naturalmente, non è mai stata Coca-Cola.
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