Si è chiuso un anno di sport. Una foresta, come sempre, cresce silenziosa intorno a singoli alberi che cadono fragorosamente: un ragazzo ucciso in un'azione di guerriglia urbana, gli ululati contro i giocatori di colore, il tutti-contro-tutti a cadenza domenicale. Meglio precisare, tuttavia: così si è chiuso l'anno calcistico, non quello sportivo. La tendenza a confondere il mondo dello sport con il calcio è sempre dietro l'angolo, lo ha ricordato anche il Presidente Sergio Mattarella nel suo straordinario discorso alla nazione: «Il modello di vita dell'Italia non può essere quello degli ultras violenti degli stadi di calcio, estremisti travestiti da tifosi. Lo sport è un'altra cosa».
Sia chiaro, io sono un grande appassionato di calcio. Ritengo, citando Marcelo Bielsa (un grandissimo allenatore di cervelli, oltre che di corpi), che il calcio custodisca stati emotivi che raggiungono livelli di intensità inaudita. «È per questo – sostiene Bielsa – che, in termini di emozioni, niente nella vita è come il calcio".
L'anno che inizia, dunque, porta con sé una rinnovata e aumentata responsabilità al mondo del calcio e ai suoi protagonisti: penso a tifosi, dirigenti, tecnici, giornalisti e cantori di questo meraviglioso sport. Ma quelli che davvero sono chiamati a un cambio di passo, sono gli atleti. Gente il cui cognome finisce sulla schiena di ragazzi di ogni ceto sociale, religione e razza, in ogni parte del mondo e che ha, nelle proprie mani, il potere di cambiare un paradigma. Se i calciatori decidessero di staccare la spina tutto, evidentemente, finirebbe. Certo non sarebbe un'operazione conveniente, soprattutto per chi è abituato a non guardare oltre che al proprio interesse. Lo standing, la presa di posizione netta, per cambiare un paradigma non è cosa da tutti e, considerato che spesso si parla di fuga dei cervelli, voglio segnare un caso di eccellenza nel mondo del calcio: un atleta-pensante al quale voglio assegnare il mio personalissimo pallone d'oro. Si tratta di Claudio Marchisio, per tanti anni protagonista con la Juventus, ora in forza allo Zenit San Pietroburgo. Tornato nella sua Torino per qualche giorno, ha voluto richiamare l'attenzione dei suoi oltre 6 milioni di followers sulla Onlus fondata da Marisa Amato, sopravvissuta alla tragedia di Piazza San Carlo, scrivendo: «A volte mi chiedo cosa significhi davvero essere generosi. Il giorno della finale di Champions League, Marisa insieme al marito stava passeggiando nei pressi di piazza San Carlo, quando all'improvviso una folla in preda al panico, in fuga dalla piazza, li ha investiti. A causa dei traumi subiti, oggi Marisa è paralizzata. Credo che da un gioco del destino così crudele possano nascere sentimenti di rabbia, sfiducia e frustrazione, invece Marisa non solo non si è arresa, ma ha deciso di fondare I sogni di Nonna Marisa Onlus con l'obiettivo di aiutare persone che soffrono di disabilità motoria. In questo Natale, Marisa e la sua storia mi hanno regalato la miglior definizione di generosità che potessi aspettarmi». Marchisio non ha mai avuto timore a schierarsi, dimostrando in passato solidarietà ai rifugiati o definendo Silvia Romano, la cooperante rapita in Kenya, «la meglio gioventù».
Il mondo del calcio cambierebbe, se ci fossero un paio di Marchisio in ogni squadra del nostro campionato di serie A e, in ogni caso, quei pochi che ci sono, bisognerebbe tenerseli ben stretti. Invece in un Paese dove il Ministro dell'Interno si comporta da ultras e dove le Onlus vengono punite (forse per eccesso di buonismo?) con un aumento della tassazione, i calciatori che potrebbero davvero cambiare un paradigma se ne devono andare all'estero.
Che il 2019 possa raddrizzare questo mondo capovolto.
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