La chiese sono aperte – quasi ovunque – ma senza funzioni collettive in presenza. Per amore del popolo di cui siamo servitori, comunque, non per codardia di fronte al nemico. Naturalmente, dobbiamo avere scrupolosa cura della trasparenza di ogni azione e di ogni omissione.
Non stiamo facendo le prove per allenarci a fare a meno della liturgia: stiamo accettando di essere messi alla prova della nostra impotenza a celebrarla nel modo consueto, senza mettere in pericolo il nostro popolo. (Cioè tutti, compresi quelli che in chiesa non mettono piede). Dobbiamo imparare a trarre una parola di Dio da questa desolazione, anche se ci costa molto, per fare meglio quando ritorneremo dall’esilio. «Non so che farmene dei vostri sacrifici e dei vostri riti», tuonava il Dio dei Profeti, se essi devono servire a coprire con il fumo dell’incenso la vostra mancanza d’amore per il popolo che vi è affidato: a cominciare dai poveri e dagli oppressi, dagli abbandonati e dagli avviliti, dalle donne sole e dai bambini di nessuno, dai malati lasciati a loro stessi e dei feriti dei quali nessuno si preoccupa.
Gesù guariva anche di sabato. Non si sognava neppure di proclamare la fine del culto: proclamava l’inizio del regno di Dio. I segni del regno di Dio che devono arrivare nelle case e nella vita dei popoli non seguono l’orario delle funzioni. E ne dobbiamo seminare di più e di migliori, alla portata della vita reale di tutti, semmai. Questo è quanto. Niente di più, ma anche nulla di meno. Il coraggio della fede cristiana è tutt’altra cosa. Il papa Francesco l’ha detto – e mostrato – in modo esemplare.
Da qualche parte, l’Eucaristia tiene sempre in vita la Chiesa tutta. In caso contrario, la Chiesa sarebbe già finita. Pochi o tanti che siano, in ogni caso, i cristiani celebrano sempre per tutti, mai solo per se stessi. Il Papa lo fa, il Vescovo lo fa. Un segno di unità eccezionale, in questa emergenza eccezionale, che ricorda gli inizi del cristianesimo, quando la prossimità cristiana di tutti i villaggi e di tutte le famiglie, si concentrava nella cattedrale, celebrata per tutti. Il popolo dell’altare è già da tempo minoranza di un popolo ben più ampio che è caro a Dio, anche se esiliato e disperso nelle angosciose incertezze della sua vita, e della sua morte, di cui fatica a venire a capo. Eppure, non raramente, e soprattutto in momenti di angoscia collettiva, accade a questo popolo più grande di sperare che Dio sia disposto a venirne a capo per lui.
Questo è uno di quei momenti. La pensosa sapienza della psiche umana è di grande aiuto. Nulla però hanno ancora trovato, gli umani, per elaborare la loro impotenza a fronteggiare mentalmente la domanda sul destino dei loro affetti, avviliti e devastati oltre la misura dell’intelligibile, che possa sostituire l’invocazione al mistero sacro racchiuso nella parola “Dio”.
La vita non può essere così carica di promesse, in cui continuiamo a crescere generazioni, da imporci di lasciare l’ultima parola a una rassegnazione infinita, perfettamente vuota di speranza. La preghiera consegna questa invocazione del nome di Dio, senza fare eccezione alcuna di persona, come un giuramento di fedeltà alla terra che abitiamo insieme. Lo dobbiamo agli abbandonati e ai coraggiosi che sono morti al nostro posto. E anche alle generazioni che dovranno abitare più saggiamente la vita ritrovata. Potremo toccare di nuovo il Signore risorto, sfiorare le sue ferite, mangiare con Lui sulla riva del lago. E ne avanzerà, persino, per molti e molti altri.
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