domenica 13 novembre 2016
«Conosci Henri Raynal?». È la domanda che da alcuni mesi pongo ai miei amici e che si declina secondo diverse varianti: «Hai letto Cosmophilie, il suo ultimo libro appena pubblicato? E L'orgoglio anonimo? O forse uno dei suoi articoli nel Dizionario delle parole mancanti? Devi leggerlo, è un pensatore raro e uno scrittore notevole, uno che a forza di coltivare le stesse domande da cinquant'anni riesce a scrivere passaggi che hanno l'evidenza e lo splendore degli alberi o dei fiori». Del resto, tra le domande da lui coltivate, c'è proprio questa. Raynal ha meditato profondamente il fenomeno che sto descrivendo: quel bisogno che abbiamo di comunicare ciò che ci colpisce, di raccontare ciò che ci accade, di riportare ad altri le nostre ammirazioni e le nostre indignazioni, le nostre scoperte e i nostri incontri, in un modo così irreprimibile che talvolta interrompiamo chi ci sta parlando oppure siamo interrotti dall'interlocutore, perché anche lui prova lo stesso bisogno. Questo fenomeno radicale, che fa di noi i portavoce della fenomenalità, Raynal lo chiama in modi diversi: «apostolato puro», «obbligo del testimone», «Complesso di Candaule»…
Come mai il bambino che vede un cavallo esclama: «Guarda, mamma, guarda!». Avrebbe potuto custodire il suo stupore per se stesso; invece no, lo trasmette, vuole che sia contagioso. Raynal considera anche esempi meno innocenti: «Che cosa spinge Giacomo a trascinarmi, per un'ora intera, dalla cantina al solaio, dal garage alla lavanderia, dalle camere alla sala da bagno, non trascurando alcun dettaglio delle istallazioni della villetta che ha appena fatto costruire, non risparmiandomi nessuno dei problemi incontrati e poi risolti nel modo più adeguato? Perché Pietro appallottola febbrilmente la mollica del pane, aspettando il suo turno per raccontare una storia? Perché Giovanni non resiste alla tentazione di fare una battuta alle spalle di un compagno che del resto gli è simpatico? Perché Enrichetta mi interrompe nella lettura del giornale per leggermi ad alta voce alcuni passaggi di un'altra pagina dello stesso giornale, pagina che leggerei fra cinque minuti?».
Non posso trattenermi dall'aggiungere a questa sequenza mia suocera, che ha la capacità di fare tutto un romanzo, pieno di colpi di scena, con gli aneddoti più banali della sua vita quotidiana, dall'ultima messa in piega dal parrucchiere alla breve conversazione avuta con una coppia di giovani davanti al reparto macelleria del supermercato.
La spiegazione di questa loquacità invasiva è rapidamente trovata. È una mera conseguenza dell'egocentrismo. Ciascuno vuole condurre la danza, mettersi in mostra, avere il proscenio, a conferma di quell'antropologia liberale che presenta l'uomo come un individuo che cerca soltanto di soddisfare i suoi interessi. E tuttavia, come suggerisce Raynal, questo egocentrismo si basa su un doppio decentramento. Sono io che parlo, ma per dire qualcosa a qualcuno. E per forte che sia il mio compiacimento nel farmi valere, è innanzitutto il reale che mi spinge – tale trovata, tale circostanza, tale avvenimento – ed è ad altri che mi rivolgo. Sotto l'egocentrismo, attraverso di esso, e perfino rendendolo possibile, c'è una generosità primordiale: quella che fa di noi gli apostoli delle cose, gli ambasciatori di tutto ciò che si muove e accade sotto il sole (notate che non ci guadagno niente con questa tesi, poiché mi costringe a rivalutare molto positivamente il comportamento di mia suocera).
Questa generosità non è certo morale. Anche il chiacchierone impenitente ne è il soggetto. È ontologica, tocca le profondità dell'essere la cui essenza è allora rivelazione, manifestazione, gloria. Non soltanto le cose si mostrano, ma l'uomo, nel mezzo di esse, sollecitato da esse, animale aperto al mondo, ha per missione di annunciarle e magnificarle. Ogni specie – la quercia, il riccio di mare, la rana – si fa notare e ci sorprende con la sua forma propria, e noi, secondo Aristotele, abbiamo un anima per natura ospitale e missionaria, «forma delle forme», capace mettere tutto in relazione, di collegare tutto e di offrire tutto. Anche la pettegola e il vanitoso sono portati da questo fiume profondo, e il loro solo vizio è di non approfittare abbastanza del senso della corrente, di provare troppo a ricondurre a sé ciò che viene dell'altro per andare verso l'altro.
Non fa difetto il fiuto al sociologo Alain Caillé, fondatore del M.A.U.S.S. (Movimento Anti-Utilitarista nelle Scienze Sociali) che considera Henri Raynal come uno dei suoi più cari alleati. Pochi altri hanno esposto così chiaramente quanto l'egoismo, la concorrenza, la rivalità siano secondari e fondino invece la loro stessa possibilità su una donazione originaria, un movimento profondo di spinta di ogni cosa verso la luce. Anche se cerco solamente il mio interesse, il mio desiderio non viene da me, mi è stato dato con la mia esistenza. La parola stessa interesse – inter-esse – testimonia che il mio essere sta in mezzo ad altri e che resto obbligato ad interessarmene, non fosse altro che per emergere, guadagnare il loro consenso, attirare i loro occhi e i loro orecchi. Astuzia dell'universo che utilizza perfino il nostro narcisismo affinché gli rendiamo testimonianza
È così che Raynal rilegge la storia del re Candaule, con una radicalità che manca alla lettura che ne fa René Girard. È nota la leggenda di questo re, narrata da Erodoto: desideroso di condividere con un altro il suo entusiasmo per la bellezza di sua moglie la regina, il re Candaule ordina alla sua guardia del corpo di nascondersi nella sua camera per ammirarla mentre si sveste – cosa che infatti porta la guardia a un'ammirazione tale che finisce per assassinare Candaule e prendere il suo posto nel letto e sul trono. Non si tratta forse di una triangolazione mimetica, di una voglia di eccitare l'invidia per gloriare sé stesso? Tale sarebbe il verdetto di una filosofia del sospetto. Ora, Raynal sospetta che questa filosofia non vada più lontano delle motivazioni superficiali dell'io ignorando così una tendenza più essenziale, più ingenua, meno psicologica: «Ero persuaso che non fosse per orgoglio che aveva agito questo re, un orgoglio tale da oltrepassare le proteste della possessività carnale; ero sicuro che un sentimento meno angusto, nato fuori di lui, trasversale e non verticale, freccia e non serpente addestrato, lo avesse condotto a far nascondere il suo favorito affinché potesse vedere la regina nuda. Lo straordinario, per lui, era la bellezza di Nissia, e non il fatto, indifferente a tale bellezza, che fosse sua. Il mio [di "la mia donna"] si era senza alcun dubbio completamente cancellato davanti al questa. Un tale gioiello era fatto per essere mostrato».
Il re Candaule resta comunque un caso-limite. In lui, l'ordine dell'essere alla sua apparizione si intorbida, si rovescia in occultazione, non solo perché lui stesso scompare violentemente ma soprattutto perché quello che egli dice «Guarda come è bella mia moglie» deve preservare la sua donna dall'essere un semplice spettacolo seducente. Il pudore è necessario per la vera manifestazione. Permette all'apparizione di non degradarsi in esibizione, alla visibilità di compiere e non di abolire il mistero. Henri Raynal, a 87 anni, è il venerabile maestro di questa grande lezione, ed è a sua insaputa a suono che vi ho introdotti nella sua camera.
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